Archive for the ‘Recensioni’ Category

Bruno Vespa e i suoi vini

domenica, Aprile 1st, 2012

Di fronte a un gioiello della letteratura come “Vino & Cucina” (Mondadori), la prima tentazione è quella dello sberleffo. Gli autori, infatti, sono Antonella Clerici e Bruno Vespa: un po’ come una jam session tra Ricchi e Poveri e Cugini di Campagna. Il libro, oltretutto, è fondato sull’abbinamento cibo-vino, ovvero l’aspetto più opinabile nel già soggettivissimo mondo enogastronomico. Ulteriore punto debole del volume (225 pagine, Euro 15.90).
Se in effetti non pare irrinunciabile sapere come la Clerici cucini l’orzotto al prosciutto affumicato o le uova in camicia con agretti, a Bruno Vespa si deve riconoscere una buona conoscenza enologica. Ne scrive ovunque, ma con cognizione di causa. Il punto è che applica al vino le stesse regole di Porta a porta: vince sempre il più forte. Tranne rari casi, i vini da lui consigliati sono la solita sequela di Tre Bicchieri cari al Gambero Rosso (la guida più “embedded”). Vini muscolari, belli senz’anima, industriali. Gaja, Lungarotti, Ca’ Viola, Duca di Salaparuta, Il Pollenza, Caprai, Berlucchi, Planeta, Antinori, Tenuta San Guido, Banfi, Frescobaldi, Casanova di Neri, Poliziano, Inama, Maculan, Jermann, Le Pupille. Yeownn: tutto troppo prevedibile.
Vespa ha il merito di citare ribelli encomiabili (Gravner, Valentini, Foradori), realtà preziose (Marisa Cuomo) e vitigni poco noti ma splendidi (Trebbiano Spoletino), ma in alcuni casi consiglia il vino palesemente meno riuscito di aziende prestigiose: menzionare il Paleo Bianco de Le Macchiole, abbinameno o non abbinamento, è come consigliare a un musicofilo Self Portrait, il disco peggiore di Bob Dylan. Significativa anche la scelta dell’Aglianico del Vulture: Vespa individua sì l’azienda storica, Vito Paternoster, ma invece di glorificare il tradizionale Don Anselmo (nominato distrattamente) opta per il Rotondo. Ovvero l’Aglianico più morbidone, vanigliato, saturo di barrique. Una scelta che ribadisce come Vespa sia filogovernativo pure nel vino, degno allievo dei Robert Parker e James Suckling, gli pseudo-guru che hanno spinto l’Europa verso la spirale involutiva del gusto omologato.
Al di là di alcune forzature, come definire il Dolcetto “cugino minore del Nebbiolo” (sono vitigni diversissimi), Vespa si rivela un Caronte preparato ma didascalico. Un insegnante che non affabula né incuriosisce, fornendo una lezioncina tanto corretta quanto stantia. Esilaranti, seppur involontariamente, alcuni aneddoti. Parlando del Friulano, il vitigno bianco che fino a qualche anno fa si poteva chiamare Tocai, l’ineffabile Bruno racconta di come tentò eroicamente di dirimere un’annosa controversia europea: “Quando dissi al Presidente della Repubblica magiara che si tenessero il nome per i loro splendidi vini dolci lasciandoci il copyright di quelli secchi, lui mi rispose che anche loro avevano Tocai secchi e perciò non era possibile mettersi d’accordo”. Questa, secondo Vespa, è la risposta che ricevette. E’ però verosimile che non abbia compreso sino in fondo le insidiose sfumature della lingua ungherese.

(articolo uscito il 30 marzo 2012 ne Il Fatto Quotidiano)

Ma quante te ne bevi? (Il Fatto)

domenica, Novembre 27th, 2011

“Parlare di musica è come ballare di architettura”, ammoniva Frank Zappa. O forse non era lui (mai capito bene). Il concetto base, però, resta: esistono branche dello scibile che mal si prestano alla narrazione. Come la racconti un’emozione, soprattutto se non ti chiami Mogol? Capita anche con il vino. Ieri sera, alla Libreria Margaroli di Verbania, è stata presentata la nuova edizione de L’enciclopedia del vino (Boroli). Un libro denso, utile, ben fatto. Parallelamente, ogni anno, si assiste all’invasione delle guide enologiche. Gambero Rosso, Espresso, Ais, Slow Wine. Internet le ha rese in parte superate e Gianni Mura suole ricordare come “guida”, non a caso, sia l’anagramma di “giuda”. La loro utilità, almeno a piccole dosi, è comunque innegabile. Gambero Rosso è quella più potente e aristocratica: versione italica degli sboroni Wine Advocate e Wine Spectator, venne crivellata da Report per implicazioni non limpidissime tra estensori e produttori. La Guida Espresso è la più scarna graficamente, quella dell’Associazione Italiana Sommeliers la più scolastica. Slow Wine si sofferma sui risvolti umani: in effetti, se sport e spettacolo danno sempre meno spunti, alcuni vignaioli assurgono naturalmente a personaggi letterari.
Se da una parte la ricchezza di pubblicazioni ha migliorato la conoscenza di un universo in cui l’Italia eccelle (seppur meno di quanto potrebbe), dall’altro la sovraesposizione mediatica ha portato a continui cortocircuiti semantici. Tutti si improvvisano sommeliers, col rischio di sembrare tanti Antonio Albanese col cucchiaione (tastevin) al collo, che guardano mezzora il calice per poi esalare un sofferto: “Sì, è rosso”.
Il Culto dell’Anice Stellato. Molti espertoni, soprattutto in tivù, si esprimono come neanche William Burroughs dopo un trip. Bizzarri figuri che passeggiano per vigne straparlando di “sentori di cherosene”, “chiusura di pietra focaia”, “polvere da sparo macerata nel rododendro all’alchermes” e “nuance eteree”. Nella maggioranza dei casi, cotanti soloni non hanno mai visto un ribes e non riconoscerebbero un cardamomo da uno spinterogeno.
La vendita dell’aria fritta. Alcuni vitigni hanno profumi precisi. Semplificando: il Cabernet Franc sa di peperone verde, il Sauvignon Blanc di pipì di gatto (uh), i vecchi Nebbiolo di goudron (eh?), i Riesling di idrocarburo (ah!). Chi afferma di riconoscerli nel bicchiere, in realtà ha letto l’etichetta. E sa che certi sentori “devono” esserci. Il riconoscimento gusto-olfattivo è scienza iper-soggettiva, figlia del gusto personale e di teorie farlocche (gli abbinamenti obbligatori). I trucchi sono infiniti. Se dite che un vino rosso ha note di lampone e rosa, nessuno potrà smentirvi. Idem per un bianco che vi ricorda la pesca o il gelsomino. Se volete dire “mela”, sparate una ulteriore specifica (esempio: “golden”) e gli astanti vi faranno la ola. Se state fronteggiando un’annata meno recente, aggiungete parole che facciano pensare allo scorrere del tempo (tipo “pesca macerata” o “viola appassita”). E se il vino è molto alcolico, spendete il sempiterno “frutti di bosco sotto spirito”. E’ come negli aforismi di Fernando Pessoa: “Il poeta è un fingitore”. E pure il sommelier.
L’elogio del famolostranismo. E’ ormai esplosa la moda dei vini veri. Prodotti che mirano alla salubrità e al terroir. Non mancano le guide apposite (Vini naturali d’Italia di Giovanni Bietti) e svariati docufim: Mondovino, Senza trucco, Langhe Doc. Tradizione o khomeinismo? Certi vini naturali sono straordinari, altri hanno puzzette che neanche le Terme di Saturnia.
Il Profeta della Fruttuosità. La guida si chiama Annuario dei migliori vini italiani ed è un ottimo modo per scoprire cosa (non) si deve bere. Lui, il Guru, è Luca Maroni. Esperto radiofonico di Decanter, cantore del vinone concentrato, versione dei mammasantissima Robert Parker e James Suckling. Maroni sta al vino come Alfonso Luigi Marra alla letteratura: con lui ci si consegna all’insondabile. Egli reinventa la lingua, la logica e il pensiero aristotelico. Egli è la Luce: non avrai altro vino se non quello opulento. Dal Vangelo secondo Maroni: “L’indice di Acquistabilità (ICQ) esprime la relazione tra Indice di Piacevolezza (IP), il prezzo di vendita riferito a una bottiglia da lt 0,75 (PV), e il numero di Bottiglie in cui il vino è prodotto”. Chiaro, no? Il Maronismo insegna che “la piacevolezza del sapore dei diversi vini è stata valutata applicando il metodo che discende dal logisma della fruttuosità del vino”. E cos’è un logisma? “Un principio-enunciato logicamente dedotto da una premessa assiomatica”. E cos’è la fruttuosità? Qualcosa di “direttamente proporzionale alla consistenza, all’equilibrio, all’integrità del suo gusto”. E cos’è forse Maroni? La maniera più involontariamente comica per avvicinarsi a un microcosmo affascinante. Se solo tutti, nessuno escluso, si prendessero meno sul serio. It’s only wine (but i like it).

(Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2011)

Barone Riccati – Langhe Monregalesi

domenica, Ottobre 2nd, 2011

La settimana scorsa ho presentato un bel Festival, Uvalibre. A Carrù. C’erano Don Gallo, Gianni Barbacetto, Giuliana Sgrena, Giuseppe Catozzella, Antonella Beccaria, Luca Telese e tanti altri.
Lì ho incontrato anche Bruno Chionetti. E’ lui a curare i vini dell’azienda Il Colombo. Siamo nelle Langhe Monregalesi, zona meno nota – ma bellissima – di Langa. Lì nasce(va) il Dolcetto meno noto. Ma non meno apprezzabile.
Dalla prossima stagione la Doc Langhe Monregalesi confluirà nella Docg Dogliani.
L’azienda Il Colombo coincide con un edificio settecentesco a dieci chilometri da Mondovì. Non troppo distante c’è Mombarcaro, teatro di una delle battaglie più cruente della Resistenza – e di alcune delle pagine più belle di Beppe Fenoglio.
La proprietà, dal 2006, è dei coniugi norvegesi Holm. Nelle etichette leggete “Barone Riccati”.
I vini più apprezzati, accanto a un Barolo Sarmassa di fresca uscita, sono i Dolcetto. Il base Chiesetta, degustato nell’annata 2010, e il Superiore Il Colombo (annata 2009). I vignetti sono a un’altezza massima di 550 metri.
Produzione piccola: sulle 8mila la Chiesetta, sulle 5mila Il Colombo.
Lieviti indigeni, niente controllo di temperatura in fermentazione.
Chi mi segue da un po’ conosce il mio affetto per il Dolcetto. Il Colombo mi ha sempre incuriosito, perché tra le poche aziende a valorizzare la Doc Langhe Monregalesi. Di lei ho letto ottime recensioni, soprattutto dalla Guida de L’Espresso.
Ora che ho (ri)bevuto i due Dolcetti, posso confermare tutto il bene che ricordavo e conoscevo. Sono Dolcetto veri, di giusta polpa, bella beva e schietta fragranza. Il Colombo è una garanzia, per questo la semplicità del Chiesetta stupisce quasi di più. Entrambi espressioni oneste e sincere di un vitigno autoctono tanto sottovalutato quanto adorabile.
Capisco che l’entrata nella celebrata Dogliani aiuterà questi vini, ma nel mio piccolo mi dispiaccio assai che la dicitura “Langhe Monregalesi”, che a me ricordava il partigiano Johnny e il ristorante Monsupino di Briaglia, scomparirà.

I cani lo sanno

martedì, Settembre 20th, 2011

Da oggi in libreria.

È tutta questione di sguardi. È sempre stato così.
Il nostro – quello degli umani – è proiettato in avanti, spesso miope, quasi sempre selettivo. Il loro – quello dei cani – è ancorato al suolo, grandangolare, spalancato su un mondo dove niente è mai di troppo. Ed è il loro punto di vista basso, umile, mai servile, stoicamente onnipresente che ci insegna a essere umani.

Andrea Scanzi racconta delle sue Labrador, Tavira e Zara: delle loro abitudini, delle loro peculiarità, delle avventure di cui sono protagoniste.
Ci sono categorizzazioni, e tipologizzazioni (cane bonsai, cane Springsteen, cane camionista), che finiscono per evocare quello che Shakespeare chiamava “il catalogo degli uomini”. Ribaltato, però. Ci sono il sesso, le malattie, l’intelligenza emotiva. Un mondo in cui si ride, molto, e ci si commuove, non di rado. In Tavira e Zara, e in tutti i cani che a loro si accompagnano, si riflette la comunità umana e lì si scopre fragile e potente, sconsiderata e ottusa. Forse anche felice.
Felicemente animale.

(Andrea Scanzi, I cani lo sanno, Feltrinelli, Euro 14 pp 160)

Triple A Live (a Rivergaro)

mercoledì, Giugno 8th, 2011

Stamani ho raccontato, sulle pagine del Fatto Quotidiano, il raduno di Triple A Velier a Rivergaro. Ecco l’articolo.

Rocco è un molossoide. Si muove, scodinzolando allegro, tra i tavoli. E’ un Bovaro del Bernese ed è l’unico che non ha bevuto.
Triple A Live: l’evento si chiama così. Lunedì, ad Ancarano. Cioè Rivergaro, val Trebbia. Nel piacentino. Centinaia di persone accorse per il raduno (gratis) dei vinonaturalisti. Dalle ore 12 alle 5 e 36 del mattino successivo: “Al primo raggio di sole”, informa la brochure.
Il luogo, notevole, è la struttura dell’Azienda Agricola La Stoppa. A organizzare tutto è Velier, società ligure d’importazione che, sette anni fa, ha cominciato a puntare sui vini veri. Il proprietario, Luca Gargano, famiglia ricchissima e un’isola di proprietà in Polinesia, accoglie gli ospiti. Introduce i “suoi” produttori, chiama l’applauso, non ha timore d’essere retorico (gli capita spesso). Al microfono si alternano i viticoltori. “Io sono ascendente Gemelli, Luca ascendente Dio”, sintetizza un vigneron, e non è l’unica volta che Velier sembri quasi “La setta di Gargano”.
La pioggia, a inizio giornata, non ha interrotto la fiumana di appassionati. Pullman dall’Abruzzo, dalla Puglia. All’entrata, un cartello scritto a mano: “Noi restiamo fuori!”. Allude a quei prodotti che da decenni contaminano il vino: gelatina alimentare, acido tartarico, erbicidi, antiossidanti.
Se fosse politica, e un po’ lo è, questo consesso rappresenterebbe l’antipolitica e il popolo di Ancarano farebbe le veci dei “grillini”. Gli iconoclasti, i nuovi partigiani. E’ uguale perfino lo slogan: “Siamo la Woodstock del vino”. Secondo i tanti detrattori, i naturalisti sono manichei, integralisti, populisti, giustizialisti. Proprio come l’antipolitica.
Anche la genesi è simile. Alla moda imperante del vino tutto uguale, a inizio Anni Duemila è montata una reazione uguale e contraria. Che, alla globalizzazione, ha reagito con la codificazione esaltata del pauperismo. Qualcuno è biologico, altri biodinamici. Alcuni inseguono il vino strano perché fa figo, altri perché desiderano ricollegarsi ai nonni. Bianchi macerati sulle bucce, rosati torbidi, rossi che spiazzano. Ora strepitosi, ora palesemente deludenti: ma non si può dire, perché del vino naturale – più che il gusto – si divinizza l’ideologia. L’approccio. Il gusto per la nicchia. L’ammicco alla tradizione. L’eresia dei produttori. La direzione dichiaratamente ostinata e contraria. Più che un vino, è un credo esistenziale.
Il movimento naturalista, per quanto giovane, si è già diviso in mille rivoli (litigiosi). Non c’è solo Triple A, che decide sovrana quali siano le aziende meritevoli delle sacre stimmate puriste (le “A” stanno per “Agricoltori, Artigiani, Artisti”). Esiste anche Renaissance. E poi l’associazione Vini Veri, langarola. E poi VinNatur, veneta. Se De Gregori ha inciso più dischi live che concerti, i vinoveristi hanno più partiti che bottiglie. In confronto, la sinistra extraparlamentare è coesa.
Districarsi nel mondo degli alternativi di Enolandia non è facile. Non esistono regole condivise, ognuno ha il suo mantra. Le direttive base sono: vino sano, abiura di agenti chimici, lieviti autoctoni, fermentazioni non controllate, no a filtrazioni e chiarifiche, uso nullo di barrique nuove, interventi minimi in cantina. Vini nudi e crudi (“che hanno ancora i peli sotto le ascelle”), bevibili e personali. Ai Tre Bicchieri premiati, preferiscono i Tre Bicchieri scolati. Di sicuro hanno una digeribilità encomiabile. Altrettanto sicuramente, spiazzano il consumatore occasionale non meno di un appassionato di musica che per decenni ha ascoltato Biagio Antonacci (va be’) e di colpo affronta le Variazioni Goldberg.
Gli amanti del genere hanno comportamenti simili. Si avvicinano rapiti al produttore, usano parole lisergiche, esalano domande astruse (“Fa uso di legno piccolo?”, “La temperatura fermentativa è controllata?”, “Ha spina dorsale acida?”). I produttori, assurti a semidei, rispondono con toni gravi, alludendo pensosamente a mineralità e suoli morenici. La dialettica assume connotati messianici.
Il Verbo si diffonde, contro la diffidenza degli addetti ai lavori istituzionali: guide di settore, Associazione Sommelier, sepolcri imbiancati a libro paga. Come per i grillini, il nemico è la casta: la partitocrazia del vino.
L’antipolitica enologica si ritrova ciclicamente in manifestazioni ostili al Vinitaly. Ha blog, siti, libri, documentari di culto (Mondovino, Langhe Doc, Senza trucco) e riviste settoriali, su tutte la colta e autoreferenziale Porthos, sorta di MicroMega del vino incorrotto.
Ad Ancarano, intanto, si è fatto buio. Non piove più. Prosegue lo speaker’s corner dei viticoltori, anche se questo non è Hyde Park e come reading era più coinvolgente Allen Ginsberg. Parte il concerto, accanto c’è un barbecue monumentale (ma la carne finisce subito). Al pomeriggio, gli adepti si erano avventati sulle svariate leccornie bio: capperi selvatici dei Monti Iblei, lieviti madre secolari, farina Gambo di Ferro biodinamica (eh?). C’era perfino la Grappa Punto G, che evidentemente nei distillati esiste. L’alba è lontana e il primo raggio di sole va atteso, sperando di non sbagliare orizzonte come in Ecce Bombo.
Luca Gargano sale sul palco, è su di giri e si butta sulla folla tipo Bono Vox. C’è fango, come a Woodstock. “Chi rimane incinta stanotte, avrà 24 bottiglie l’anno in regalo da Velier”. Boom. Nonostante i propositi, prima delle 5.36 sono andati via quasi tutti. Rocco, invece, c’è ancora. Dorme il sonno dei giusti. Un sonno astemio, senza afflati etilici.

(Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2011)

Cronaca di un incontro

lunedì, Marzo 14th, 2011

La settimana di intense presentazioni è terminata. Compagnia del Taglio (Modena), Unisono (Feltre), Libreria Palazzo Roberti (Bassano del Grappa). Chilometri su chilometri. Incontri, degustazioni, scoperte. Riassumerle tutte sarebbe impossibile, nei prossimi giorni (che mi vedranno a Doha, Qatar, da giovedì) parlerò di alcune bottiglie che mi hanno colpito.
Affronterò poi due temi che mi premono: quello del viaggiare continuo (“C’è solo la strada”, cantava qualcuno) e quello del mio rapporto letterario futuro con il vino.
Intanto, pubblico il bell’articolo di Gianpaolo Giacobbo, storica firma di Porthos, sul portale Bassanonet. Era presente all’incontro di Bassano e lo ringrazio per le parole sincere.

P.S. Ho appena saputo che domenica 10 aprile presenterò Il Vino degli altri a Vinitaly, stand Emilia Romagna, all’interno della rassegna organizzata da Camera di Commercio e Casa Editrice Aliberti (in calendario ci sono anche Enrico Vaime e Luca Telese).

(di Gianpaolo Giacobbo) Presentato a Palazzo Roberti in collaborazione con la delegazione Ais di Vicenza, l’ultimo libro dell’eclettico giornalista scrittore Andrea Scanzi, una delle firme de “La Stampa”.
Introduce l’autore, il Sommelier Alessandro Scalabrin con Francesco Nicolli di Palazzo Roberti. Scanzi entra ed esce con disinvoltura tra il mondo della musica, dello sport, del cinema e dell’arte con fare disarmante. Il mio ricordo di Scanzi era legato al critico musicale su “Il Mucchio Selvaggio” una rivista che, a dispetto del nome, non si occupa di dubbie ammucchiate ma di critica musicale indipendente. Le schede di Rui Scanzi erano quelle con cui mi trovavo in maggior sintonia. E’ toccato anche al mondo del vino rimanere “vittima” delle sue passioni.
Si sa, questo mondo ha qualcosa di magico e basta poco per essere rapiti. Da questa attrazione fatale sono nati i suoi libri dedicati al vino. “L’elogio all’invecchiamento”, Mondadori Editore, è stato il suo primo lavoro, che lo vedeva impegnato tra le varie sfaccettature dell’enologia italiana con fare appassionato anche se tratti vacillante. C’erano però, in quel libro, alcuni spunti interessanti che facevano presagire uno sviluppo del pensiero più interessante. Così è stato.
Ne “Il vino degli altri”, Mondadori Editore, il giornalista toscano assume una maggiore consapevolezza e una maturità rasserenante esprimendo concetti importanti nel mondo della degustazione che riesce a comunicare con uno stile letterario fresco e leggibile e ironico. Un libro che lascia il segno, da consigliare a quanti, non esperti di vino, abbiano la voglia di saperne un po’ di più e di salvarsi prima di diventare troppo seri. In fondo è solo vino.
Scanzi vive i vari ambienti dello sport e della cultura ma sente una mancanza di personaggi veri come Mohammed Ali o Roberto Baggio di cui ha curato l’autobiografia. Nel vino invece ci sono persone e luoghi che meritano di essere raccontati e che si narrano da soli. Fa riferimento ad Angiolino Maule illuminato produttore di Gambellara nel vicentino, al friulano Josko Gravner, al piemontese Flavio Roddolo a tutti quei produttori che si sono messi in gioco fino in fondo rischiando che il proprio vino possa anche non piacere in nome del terroir.
Nel mondo del vino – ci racconta – esistono degli avamposti salvi, veri, luoghi intatti, incontaminati. Difficile non rimanere affascinati. Raccontarli è facile perché si trovano lì pronti, basta coglierli. Il mondo dello sport e anche della musica ha troppe maschere e troppe false facciate dovute ai grossi interessi economici che ruotano attorno ad essi.
Tornando a “Il vino degli altri” c’è proprio da divertirsi e da imparare. Si sta facendo strada una visione del mondo del vino più aperta, non posso fare a meno di pensare al mio maestro Sandro Sangiorgi, quando dieci anni fa sulla allora appena sorta rivista Porthos scriveva di questi vini e raccontava di queste persone. Il mondo del vino ci appellava a visionari ed esoterici. Oggi è realtà toccabile di cui si occupano anche le grandi case editrici.
La collana “strade blu” di Mondadori aveva già proposto un bel lavoro ricco di spunti “Mai fragole a dicembre” di Licia Granello ed ora con Andrea Scanzi ho la sensazione che abbia fatto ancora centro… Oggi è già domani.

Langhe Doc: The Movie

giovedì, Febbraio 3rd, 2011

Pubblico anche qui l’articolo che ho scritto stamani su La Stampa. Un film da vedere. Che ci riguarda.

Si scrive Langhe Doc, si legge Mondovino all’italiana. Tanto il documentario di Jonathan Nossiter fu un grido di dolore per il mondo del vino svenduto al mito modaiolo americanizzato, quanto questo lavoro di Paolo Casalis – di prossima uscita – è un atto d’amore per la Langa che fu. E forse non è (quasi) più.
Racconta molto il sottotitolo, Storie di eretici nell’Italia dei capannoni. Casalis, con l’aiuto del giornalista Federico Ferrero, ha raccolto le testimonianze di chi non si è arreso al gusto globalizzato. Tenendo a mente la lezione, e la tradizione, degli antenati. Ultimi passeri sul ramo, come avrebbe nuovamente scritto Beppe Fenoglio, che fino a prova contraria la Langa e i langaroli li conosceva bene.
Una produttrice di vino, uno di formaggi, uno di pasta artigianale: i protagonisti di Langhe Doc sono loro. Maria Teresa Mascarello, figlia di Bartolo, patriarca del Barolo austero e di un’etichetta irriverente – “No barrique no Berlusconi” – che finì sotto sequestro per desiderio di un politico locale di centrodestra. Silvio Pistone, produttore di tome a Borgomale nell’Alta Langa, che un bel giorno ha abbandonato il suo lavoro (piastrellista) per inseguire un sogno: cinquanta pecore, un casale disastrato e l’utopia sfrontata di bastare a se stesso. E Mauro Musso, talebano integralista della pasta, ex commesso al supermercato e oggi artefice di “tagliolini inusuali (la parola “tajarin” non può usarla) ad Alba. Realizza la sua pasta con le varietà di grano più astruse, dal farro dicocco alla semola dura “Russello”. Beve solo vino naturale, è convinto che il 99 percento del cibo industriale sia veleno ed è partito da un unico credo: “Avendo conosciuto da vicino la grande distribuzione, ho deciso di fare pasta in maniera diametralmente opposta”.
Uomini e donne in direzione ostinata e contraria, come le vignerons di Senza trucco, altro documentario (di Giulia Graglia) che mostra la parte più spontanea del mondo enogastronomico italiano. Testimonianze ulteriori di un sottobosco quasi-rivoluzionario, talora riunitosi in associazioni (Vini Veri, VinNatur, Triple A Velier), che mira alla salute del consumatore e al recupero del tempo che fu. Quello dove non c’erano i guru americani a dettare la linea per un vino facile, opulento e piacione, perfettino e senz’anima.
Langhe Doc è un piccolo esempio – 52 minuti – di arte della sopravvivenza eretica. Maria Teresa Mascarello racconta di non voler essere soltanto la copia del padre, cosa che infatti non è, poi però parla come lui. Le stesse frasi, la stessa filosofia. Quella che, nei terribili anni Novanta, quando i cosiddetti Barolo Boys si convinsero che era possibile fare grandi rossi abusando di barrique e altri demoni, avevano colpevolmente relegato Bartolo Mascarello al ruolo di fossile. Residuato bellico di un mondo poco redditizio e superato. Il tempo era dalla sua parte, come nelle canzoni lontante di Bob Dylan, ma nel frattempo Bartolo non c’è più e la dialettica manichea tra tradizionalisti e modernisti resta stringente.
Casalis, come Nossiter, tifa per gli indiani e non certo per la grinta posticcia degli epigoni di John Wayne. Gli indiani nativi d’America vivono in riserva. Gli indiani nativi di Langa non paiono meno all’angolo, poco battuti dal turismo e svantaggiati da produzioni esigue, ma resistono. Alla loro maniera: quella dei padri, quella dei nonni. Quella di Giorgio Bocca, che in Langhe Doc compare in un cameo. Le sue parole hanno valore profetico e testamentario: “Nel breve spazio della mia lunga vita, l’Italia è cambiata in maniera spaventosa. Non si è badato a nessun risparmio, si è costruito in grande come se fosse un paese enorme con spazi disponibili per tutti. E invece non ci sono, questi spazi. E’ tutta una lotta contro il tempo. Bisogna riuscire a diventare civili prima che il disastro sia completo. Bisogna vedere se arriviamo ancora in tempo a salvare questo paesaggio. Per me in gran parte l’abbiamo già distrutto”.

Recensione: L’acquaBuona

giovedì, Novembre 4th, 2010

La cosa più bella delle presentazioni non è vendere libri, ma conoscere nuove persone. Che ti leggono, che (forse) ti stimano, che (soprattutto) hanno in comune con te ideali, passioni, aspetattive.
La serata di ieri a Tortona, non ha fatto eccezione. Tanti produttori – Walter Massa, Ezio Cerruti, Elisa Semino -, un’apparizione fugace del professor Attilio Scienza, la relatrice Marina della Compagnia del Taglio che sfoggia il tacco 12 come concessione all’autore (e gia che c’è mi regala il cioccolato bianco e – ahhhhhh – un cd di Vecchioni), una bella libreria (Namastè), la Vineria storica di Tortona come luogo per cena. Le chiacchiere, i vini aperti uno dopo l’altro, Tavira che sopporta stoicamente anche questa trasferta.
Di questo si vive, e di tanto altro ancora (cit). Grazie. 
E si vive anche di recensioni. Questa è del blog AcquaBuona.
La pubblico, insieme ad alcune foto della serata di ieri.

“Una delle letture più piacevoli dell’ultima estate è stata il Il vino degli altri, nuova pubblicazione del poliedrico giornalista/scrittore de La Stampa Andrea Scanzi, che dopo il successo di Elogio dell’invecchiamento, pubblicato sempre da Mondadori nel 2007, torna a cimentarsi con il vino e i suoi protagonisti.  E lo fa a modo suo, con ironia e leggerezza, con passione e competenza,  con una scrittura fluida e mai noiosa.
Il libro è un viaggio tra vignaioli, vitigni e territori guidato dalla ricerca di un possibile accostamento tra i più noti e apprezzati vini stranieri (Champagne, Borgogna, Riesling, Rioja, Tokaj, Rodano nord, Loira, Bordeaux) e alcuni grandi corrispettivi del nostro paese (Franciacorta, Etna, Bolgheri, Sagrantino, Garganega, Montalcino, Schiacchetrà  delle Cinque Terre,Trebbiano d’Abruzzo di Valentini). E così, attraverso i vini di casa nostra, alla fine si finisce per saperne di più anche sui “vini degli altri”, rifuggendo improbabili confronti qualitativi, ma riflettendo su affinità e caratteristiche peculiari che li rendono assai più vicini di quanto si possa immaginare.
Nei trenta capitoli del libro Scanzi parla dei suoi viaggi, delle visite in cantina, degli assaggi intimi e “di gruppo”, dei personaggi che lo hanno emozionato, di quelli che lo hanno lasciato indifferente, e lo fa sempre con un giusto compromesso  tra rigore tecnico e un’innata vocazione al “cazzeggio”. E proprio qui sta, a mio avviso , il punto di forza del libro: è un testo per tutti. Per addetti ai lavori, che potrebbero rendersi conto che si può parlare di vino anche in maniera meno seriosa e paludata di quanto regolarmente accade, e per neofiti appassionati, che troveranno nelle 330 pagine di Scanzi tante informazioni utili, aneddoti e “dritte” con cui avvicinarsi a questo fantastico mondo.
Non mancano gli spunti polemici e le battute al vetriolo che rendono ancor più intrigante la lettura. Passaggi “scomodi” che hanno attirato sull’autore le critiche negative di diversi rappresentanti dell’establishment enologico (ai quali ha saputo rispondere per le rime), magari infastiditi dall’inaspettato successo di questo giovane e sfrontato giornalista, che non ha le pretese di insegnare niente a nessuno (effettivamente anche lui qualche “toppa” la prende nel libro!), ma almeno ha il coraggio di schierarsi e di raccontare come stanno veramente le cose.
E alla fine le chiacchiere stanno a zero! Scanzi è bravo e Il vino degli altri è la più frizzante novità editoriale del settore” (Franco Santini).

Metti una sera a Tolmezzo

domenica, Ottobre 24th, 2010

Sono appena rientrato da un lungo weekend. Più di 1500 chilometri in due giorni, Cortona-Tolmezzo-Milano-Cortona con varie scampagnate nel mezzo.
Domani o martedì racconterò la presentazione di Tolmezzo e i vini che abbiamo bevuto (tanti).
Oggi riporto l’ottimo – e sin troppo lusinghiero – reportage di Francesco Brollo, uno degli organizzatori e relatori della serata.
L’articolo è pubblicato sul sito Carnia.La.

 “Massì, nonostante due microfoni imbolsiti, le campane del vicino campanile imbizzarrite e le sgomitate di un inverno impaziente di prendersi la scena, la prima volta tolmezzina di Scanzi è stata un successo.
A rivederlo oggi su Rai2 dentro la tv a X Factor, una quindicina di ore dopo esserci salutati, io che sono un catodico non praticante, ne ho apprezzato anzitutto il fisico (no, non cerco fraintendimenti filo gay “gendericamente” corretti per piacere), dico il genere di fisico che qua in Carnia siamo soliti apprezzare: quello di chi sa stare con la schiena dritta al risveglio da eroiche maratone enoiche. Di chi sa stare col feeling, come dice il mio amico Stefano.
Chiariamo: non ci siamo etilicamente compromessi venerdì notte, ma tirare tardi col-bacco in testa è pratica che richiede un certo allenamento. Essere lucidi e ludici il giorno dopo, ancor di più. E Andrea lo ha fatto, dispensando anche in tv lampi di critica disincantata tra i più vivacemente efficaci della puntata.
In vino meritas come avevo ribattezzato questo incontro ha regalato, spero, al pubblico presente motivi di riflessione seri ma non seriosi sul vino.
Annalisa Bonfiglioli ha letto e introdotto con efficacia e professionalità Il vino degli altri, il libro scritto da Andrea, che poi ha risposto con la riconosciuta effervescenza alle domande che gli ho posto. Chiara e Stefano hanno aperto porte e cuori con la consueta e schietta accoglienza. Mattia e Gian Marco dei Charlestones ci hanno scaldato con lampi di brit pop e Giorgio ha cucinato bene piatti di Carnia che hanno conquistato. I vini di Terrae.Doc hanno fatto il resto.
Resto non in spiccioli, neanche in caramelle sciolte, come cantava Vasco, ma tutto ciò che resta di tanto di buono nelle papille al termine di una serata magica. Nelle pupille resta il sorriso di Andrea, scopertosi contento di fare da compagno di viaggio di un gruppo di amici. Quello che ha fornito con le sue parole a chi c’era è una cartografia buona per orientarsi nel mondo del vino. Ma anche nel mondo e basta.
Se Gianni Mura, che al pari di Veronelli qui ha lasciato un pezzo di cuore, ha cantato le lodi di Scanzi, il cerchio si chiude; o si riapre per rinnovarsi e allargarsi. E chi si chiede attorno a cosa, si può rispondere: attorno all’autenticità, termine spesso stiracchiato da stanchi operatori turistici in cerca di vena.
Scanzi ha dimostrato perché lo si possa oggi definire una delle penne più brillanti d’Italia, eclettico senza essere odiosamente tuttologo, ha parlato da sommelier sicuramente non ortodosso, ovvero capace di emanciparsi  ed emancipare il lettore dalla schiavitù di certi clichè che di questi tempi paiono obbligati per chi voglia parlare di vino, come l’ostentazione di esotici paragoni olfattivi e gustativi. Ci ha portato nel backstage del mondo del vino, senza cadere nel complottismo da retrobottega o in dietrologie da retrobottiglia.
Chiudo con due frasi prese dal suo libro che brillano come stelle e aiutano a orientarsi. Invito a seguirlo, leggerlo, ascoltarlo, sia nelle sue ficcanti incursioni nella politica nazionale su Micromega, che nella musica, costume e sport sulla Stampa, e poi nei suoi libri sul vino, sullo sport, su Beppe Grillo. Tanta roba. E allora un buon punto di partenza che sia il suo sito www.andreascanzi.it
Nessuno nel mondo del vino, ha ragione. Si tratta solo di scegliere l’idea più vicina alla propria sensibilità.
Fate i vostri passi, le vostre scelte le vostre sniffate, senza mai inciampare nel peggiore degli errori: imporvi il gusto, d’elite, degli altri”. (Francesco Brollo).

Due recensioni

lunedì, Settembre 13th, 2010

La prima recensione riguarda Il vino degli altri ed è stata pubblicata dal mensile Il mio vino, numero di giugno. E’ molto bella e li ringrazio.

“Due anni e mezzo dopo Elogio dell’invecchiamento, Andrea Scanzi, giornalista de La Stampa e scrittore d’altri libri, torna sullo scaffale con Il vino degli altri, sempre Mondadori editore. Scritto, e si “sente”, con grande passione e anche con una buona dose di competenza, con molto spirito sportivo e leggerezza, pur se certi suoi intenti – o, meglio ancora, certe dichiarazioni di produttori incontrati – sono stati considerati invece pesanti, destabilizzanti e hanno suscitato polemiche. Il nostro è un mestiere strano: se non scrivi la verità o la travisi sei un cretino (giustamente), se scrivi le cose come stanno sei un terrorista.
Non entriamo nelle polemiche perché ci vorrebbero tre pagine solo per spiegare. Noi però tifiamo Scanzi. Incondizionatamente. Leggete il libro e anche voi, scommettiamo, sarete dalla sua parte.
Il vino degli altri – un bel 326 pagine a 18.50 euro – è un viaggio tra produttori, territori e singoli vini, italiani e stranieri. Un girovagare raccontato in bello stile, con ironia e profondità al tempo stesso. Uno di quei libri sul vino che si può leggere – fatto assai raro – anche a letto, come un romanzo che acchiappa. Ci sono un paio di distrazioni, specie sui nomi dei produttori (Longarotti al posto di Lungarotti, Pier Mario Grattamacco al posto di Pier Mario Meletti Cavallari, Grattamacco è il nome dell’azienda) ma Scanzi ha già provveduto a scusarsi e ad aggiustare.
Un libro da cui tirar giù numerosi spunti: per viaggiare (e anche per evitare certi posti), per bere (spesso bene), per chiacchiere (e anche discutere). Il che è un gran bel risultato”.

La seconda recensione riguarda Elogio ed è stata pubblicata sul sito Intravino. Bontà loro, hanno inserito Elogio tra i 10 libri imprescindibili di vino. Un abbraccio all’autrice Francesca Ciancio (in poche righe ha detto tutto) e un brindisi al suo portale.

Elogio dell’invecchiamento di Andrea Scanzi. Si, ancora lui. Pensateci, questo libro è una furbata, anzi un irresistibile mix di egocentrismo letterario, talento narrativo, citazioni musical-cinematografiche e didattica della sommellerie. Ecco a voi i volumi dell’Associazione Italiana Sommelier in chiave cool. Scanzi sta al vino come Oldani alla cucina, entrambi amano il pop. Descrivere il pinot nero come vino Kiarostami è semplicemente geniale: il vitigno d’essai dà soddisfazione con il tempo, ma guai a dimenticare il primo pensiero dopo aver visto ”Il sapore della ciliegia“. L’idea fantozziana della Corazzata Potemkin, al confronto, è uno zucchero. Dare tempo al tempo, sempre”.