Mi ha sempre dato fastidio non conoscere bene le cose. Se mi piaceva una canzone di un artista, dovevo conoscere tutta la sua discografia (e prima di Internet non era facile). Se chiedevo un vino al ristorante, non mi piaceva affidarmi docilmente al ristoratore (e infatti sono diventato sommelier). E adesso che magari chiedo un gin tonic, detesto non sapere cosa ci sia dentro. Che gin? Quale acqua tonica,? In che percentuali? Così, dopo i single malt scozzesi (Islay soprattutto) e i whiskey americani (bourbon e non solo), sto ora studiando con attenzione i gin.
E’ un mondo molto affascinante e sottovalutato. Il gin, come noto, (cito Wikipedia) “è un distillato forte, chiaro, tipicamente incolore prodotto dalla distillazione di un fermentato ottenuto da frumento e orzo in cui viene messa a macerare una miscela di erbe, spezie, piante e radici: i botanicals. Tra queste sono presenti bacche di ginepro che caratterizzano il profumo e il gusto. Il nome del distillato deriva dal nome delle piante di ginepro che producono le bacche“. E’ nato nei Paesi Bassi verso la metà del Seicento, inizialmente come cura (teorica) per le febbri di cui soffrivano i soldati olandesi nelle Indie Orientali. Anche il gin tonic ha avuto una genesi simile; la stessa acqua tonica (a base di chinino) doveva servire per curare la febbre. Non a caso l’acqua tonica più nota – e probabilmente più buona – del mondo, nata nel 2004, si chiama proprio “Fever Tree” (è inglese e in Italia è importata da Velier). Dopo i Paesi Bassi il gin invase l’Inghilterra, che lo celebrò e fece suo anche come risposta al cognac degli odiati (da loro) francesi.
Il gin è fondamentale nei cocktail ma non si beve quasi mai puro. Il cocktail più noto, e diffuso, è il gin tonic. Ognuno ha la sua ricetta e anch’io – mi sto specializzando – ho la mia. Se si beve come aperitivo meglio diminuire la dose di gin e farlo più leggero, dopo cena vale il contrario. Si parla di un 6/10 di acqua tonica e 4/10 gin, più una fetta di limone e ghiaccio. Io preferisco stare 1/3 gin e 2/3 acqua tonica, scendendo a 1/4 (ma pure 1/5) gin e 3/4 (0 4/5) acqua tonica come aperitivo. Sul limone ci sono varie teorie: chi mette solo la fettina, chi un po’ di succo di limone e la fettina, chi solo il succo, chi direttamente un’acqua tonica già limonata. Il succo di limone rende più torbido il succo, quindi capisco chi metta solo la fettina e l’acqua tonica già limonata. Io metto una fettina di lime, lo spremo in buona parte sul bicchiere vuoto e poi strofino la fettina sul bordo e sul fondo. Quindi lascio la fettina come guarnizione. Si suole mettere anche una fettina di cetriolo (lo consiglia la Hendrick’s), oppure bacche di ginepro e – più raramente – qualche piccola scorza di zenzero (ginger). Alcune ricette consigliano di aggiungere al tutto una o due gocce di angostura bitter, un amaro concentratissimo – per questo ne va usato poco – ottenuto dall’infusione di galipea cusparia (pianta medicinale anche nota come angostura trifoliata), chiodi di garofano, radice di genziana, cardamomo, essenza di arance amare e china. Si trova in boccettine da 0.10 e 0.20, si usa soprattutto nel Manhattan Cocktail e deve il nome a una cittadina venezuelana dove era di stanza il dottore – al soldo di Simon Bolivar – che, pure lui, cercava una cura per i soldati ammalati di febbre e problemi intestinali. L’angostura, di cui esistono non poche varianti artigianali, sta bene anche nel gin tonic. Io ne consiglio due gocce alla fine, proprio come ultima cosa prima di girare e bere.
I due ingredienti principali, ovviamente, sono gin e acqua tonica. Non esageriamo coi sofismi: potete usare tranquillamente Schweppes, Recoaro, Tomarchio e al limite la Kinley (oddio, la Kinley forse no). Otterrette ottimi risultati. E’ però innegabile che la Fever Tree (più o meno 1 euro e 5 centesimi in rete, bottiglia da 0.20) garantisca un risultato difficilmente superabile. Troverete molte versioni, io consiglio la Fever Tree classica e la “Indian” (ma pure la Lemon). Di pregio, e tanto, anche l’acqua tonica Erasmus. Ovviamente va benissimo anche Lurisia. Nel gin tonic, che è meglio servire in un bicchiere balloon da vino – meno tradizionale ma più scenografico – si parte con la fettina di lime (o limone) e ghiaccio nel bicchiere. Limone o lime, oltretutto, permettono di legare meglio gli ingredienti, quindi è indicato metterli proprio all’inizio. Poi si aggiunge il gin (anche se qualcuno lo mette come prima cosa) e altre eventuali decorazioni tipo il cetriolo (se non si è messo lime o limone). Il gin comincerà subito a sciogliere il ghiaccio. Non male – come guarnizione – anche la scorza d’arancia, ma solo se il gin è particolarmente speziato. Infine l’acqua tonica, che può essere servita a parte nella boccetta da 0.20 (così uno la dosa come vuole) oppure direttamente nel bicchiere.
Resta, ovviamente, il gin. Quale scegliere? E’ un mondo sterminato, con bottiglie anzitutto inglesi e olandesi, ma pure tedesche, scozzesi, americane, dalla Groenlandia e ovviamente italiane. Si va dalle 15 euro alle 50. In casa ne ho una decina, ma ve ne consiglierò qui qualcuno in più (una trentina o giù di lì).
Occitan Dry Bordiga. Lo cito subito perché è stato il primo che ho comprato. Buon entry level, bel rapporto qualità/prezzo (15 euro). Azienda storica di Cuneo, attiva dal 1888 e celebre anzitutto per il Genepy. L’Occitan Dry è il base. Ci sono poi tre Gin di livello superiore: Dry, Rosa e Smoke. Curioso l’ultimo, un po’ affumicato.
Marton’s. Un gin artigianale trevigiano, frutto della cocciutaggine e della visionarietà di Roby Marton, che ha puntato su un distillato eretico da quelle parti.
Vallombrosa. I frati di Vallombrosa, diocesi in provincia di Arezzo, fanno da sempre un gin di pregio. Ad Arezzo, la mia provincia, si trovava a prezzi accessibili nelle migliori enoteche. Tre anni fa alcuni turisti inglesi se ne sono innamorati e lì è partito il passaparola. Risultato: oggi tutto il Vallombrosa Gin lo distribuisce Velier, a prezzi ovviamente più alti, e gli inglesi hanno pure acquistato un po’ di quel ginepro particolarissimo – zona Sansepolcro – creando un gin monovarietale chiamato proprio “Arezzo”. Meritoriamente, nonostante le proposte economiche vantaggiose, i frati non hanno accettato di aumentare la produzione: avrebbe significato peggiorare il prodotto.
Caorunn. Gin scozzese, produzione limitata, ottenuto dall’infuso di cinque vegetali “della tradizione celtica”. E’ fatto dalla Balmenach Distillery, nel cuore delle Highlands scozzesei.
The Botanist. Ancora Scozia, stavolta Islay (infatti è un Islay Dry Gin). L’isola della torba. Qui la distilleria Bruichladdich produce questo gin, in Rete attorno ai 35 euro. E’ tra i miei preferiti.
Tanqueray No.10. Uno dei gin più celebri, si caratterizza per profondità e freschezza. Il No. 10 si distingue per le note di pompelmo, arancia e lime, oltre al solito ginepro e alla camomilla.
Hayman’s 1850 Reserve. La Hayman’s è una delle distillerie più importanti e antiche d’Inghilterra. Con lei si va sul sicuro. Il 1850 Reserve riproduce il gusto che aveva il gin quando nel XIXo secolo invecchiava in botti esauste di whisky. Una stranezza, perché il gin non deve invecchiare, ma al tempo si spillava dalle botti e capitava che sostasse “involontariamente” più del dovuto nella botte, finendo con l’acquisire un sapore particolare.
Old Tom Gin. La Hayman’s detiene anche gli storici Old Tom Gin, ancor più caratterizzati dalle note dei botanicals rispetto a qualsiasi altro gin precedente e successivo. Erano molto in voga nel XIX secolo. Spesso nella etichetta è raffigurato un gatto nero (Black Cat). Sono edizioni limitate e dal gusto “estremo”.
Hendrick’s. Forse il più usato e richiesto al momento in Italia, almeno tra i gin di livello. E’ scozzese e si caratterizza per il gran corpo, per la morbidezza e per gli 11 elementi – fiori, radici, semi, frutti – che ne costituiscono i botanicals. Decisive le essenze di cetriolo tedesco e l’olio di petali di rose della Bulgaria. Unisce due gin distillati separatamente con due metodi radicalmente diversi e dal sapore assai differente. Ha successo perché è davvero buono e perché è meno “difficile” di altri. Se volete andare sul sicuro, quando chiedete un cocktail scegliete lui.
Beefater 24. Uno dei più autentici London Dry Gin, perfetto per capire cosa intendono gli inglesi per gin. Distillato in alambicco a temperatura moderata, ingredienti di primo scelta (ginepro, radici di angelica, semi di coriandolo, anice stellato, agrumi).
Greenall’s Bloom. Molto morbido. Un gin “romantico” e dal gusto femminile, con note di arancia e miele.
Blackfriars Sainsbury. Altro London Dry Gin che difficilmente delude. Pluripremiato.
Monkey 47. Gin tedesco, per l’esattezza Schwarzwald Dry Gin. Prodotto nella Foresta Nera dalla Black Forest Distillers GmbH. Affascinante per la storia e per la zona di provenienza, per quel che vale lo adoro. Costo in Rete sui 35 euro.
Martin Miller’s. Nato dall’intento (appena ambizioso) di tre inglesi che, a Notting Hill, si sono uniti per ottenere il gin più buono del mondo. Alla consueta nota di ginepro si unisce una sfumatura di limone.
William Chase. Secondo il portale Myluxuy.it è il miglior gin del mondo. Inghilterra, Distilleria Chase nello Herefordshire. Doppia distillazione in alambicchi di rame. Note di agrumi, mele e caramello. Tra gli ingredienti principali: ginepro, buccia d’arancia, scorza di limone, mela verde, liquirizia, coriandolo, angelica, luppolo, fiore i sambuco e radice di giglio.
Bobby’s Schiedam Dry Gin. Il gin è nato in Olanda e questo, appunto, è un gin dei Paesi Bassi. Spezie dell’Indonesia, note limonate con ginepro, rosa canina, agrumi e spezie esotiche (tra cui il pepe di Giava).
Filliers Dry Gin 28. Viene dal Belgio. Il “28” si riferisce al numero dei botanicals presenti. Fatto a mano, 100mila bottiglie l’anno da mezzo litro.
Elephant Gin. Nato da poco, l’intento è quello di “catturare lo spirito dell’Africa”. L’etichetta ricorda un francobollo, tra i bothanicals ci sono l’assenzio africano, il baobab e la pianta di Buchu (tipo menta).
Darnley’s View. Altro London Dry Gin con cui non si sbaglia, attorno ai 40 euro in Rete. Distilleria Wemyss. Il nome è legato al primo incontro tra Maria Stuarda e il futuro marito Lord Danley, proprio nel castello di Wemyss.
Bunch Botanical. London Dry Gin tradizionale, in edizione limitata.
The London No. 1. Lo riconoscerete per il caratteristico colore azzurro. E’ prodotto con un processo di tripla distillazione. Nell’ultimo passaggio vengono aggiunti 12 botanicals e solo in seguito avviene l’infusione con il fiore di gardenia, che gli dona il colore acquamarina luminoso (unico o quasi). In rete attorno ai 40-45 euro. Celebre anche il No. 3, dal caratteristico colore verde, ritenuto perfetto per il Martini Dry.
Langley’s No. 8. Definito “il gin più inglese tra i gin inglesi”, qualsiasi cosa voglia dire.
Bulldog. London Dry Gin che in Rete si trova sotto i 30 euro. Segnatevelo, perché la distilleria che lo produce opera da più di 250 anni e dunque il know how ce l’ha. Il sapore arriva da un mix di ingredienti che gli conferiscono caratteristiche assai specifiche: ginepro e iris dalla Toscana, coriandolo dal Marocco, limoni dalla Spagna, lavanda dalla Francia e l’eccentricità del Dragon Eye, un frutto di origine cinese simile al lichi, utilizzato nell’antichità come stimolante. Ci sono anche le foglie di loto, provenienti dalla Cina.
Gin Mare. Un gin mediterraneo aromatizzato con quattro “botanici” principali: basilico dall’Italia, timo dalla Grecia, rosmarino dalla Turchia, agrumi dalla Spagna e l’oliva Arbequina – cultivar tipica della Catalonia.
Bluecoat. Un Dry Gin americano. Botanicals segreti, alambicco in rame. Il nome è legato alle uniforme durante la Rivoluzione Americana.
Aviation. Dry gin americano, nato nell’estate del 2005 a Seattle. Il barista Ryan Magarian ricevette una infusione botanica estiva da un amico di Portland. Trovandola diversa da qualsiasi cosa avesse mai assaggiato in vita sua, si mise a cercare il produttore. Era la House Spirits Distillery. D’accordo col barista, la House Spirits creò uno stile di gin regionale quantomeno inusuale. E nel giugno del 2006, dopo una trentina di tentativi, è nato l’Aviation Gin.
Barrel Reserve. Altro gin americano, affinato nelle botti. Questo particolare tipo di invecchiamento, unito alla scelta dei botanicals, conferisce al gin un colore caramellato e una nota dolce inusuale (ma tipica del concetto americano di distillati).
Isfjord Premium. Un gin della Groenlandia. Forse al momento il mio preferito. Non costa poco, 40 euro in Rete o più, ma ha una storia davvero molto affascinante. Riporto dalla descrizione: “Per oltre 180.000 anni, l’acqua utilizzata ad Isfjord è stata congelata ed è rimasta conservata sotto forma di ghiaccio nella calotta glaciale della Groenlandia. Con il passare dei secoli, Madre Natura ha rotto il ghiaccio in banchi fluttuanti, da cui milioni di iceberg naturali si sono dispersi nella regione Icefiord di Ilulissat. In questa zona unica, il ghiaccio è a portata degli abitanti locali che lo sciolgono per ottenere l’acqua naturale più pura. L’acqua viene poi utilizzata per la produzione del miglior gin, distillato 5 volte con i migliori elementi botanici e il frumento biondo“. La gradazione è di 44 gradi (il gin oscilla tra i 40 e i 47 gradi) ed è uno dei pochi gin che si può bere anche da solo.
Potrei citarne ancora tanti, ma per ora mi fermo qui. Stampatevi questo post e compulsatelo quando siete al bar e vi va un gin tonic, ma non vi va che siano gli altri a scegliere per voi. Siate competenti, siate esigenti (cit).