Pubblico anche qui l’articolo che ho scritto stamani su La Stampa. Un film da vedere. Che ci riguarda.
Si scrive Langhe Doc, si legge Mondovino all’italiana. Tanto il documentario di Jonathan Nossiter fu un grido di dolore per il mondo del vino svenduto al mito modaiolo americanizzato, quanto questo lavoro di Paolo Casalis – di prossima uscita – è un atto d’amore per la Langa che fu. E forse non è (quasi) più.
Racconta molto il sottotitolo, Storie di eretici nell’Italia dei capannoni. Casalis, con l’aiuto del giornalista Federico Ferrero, ha raccolto le testimonianze di chi non si è arreso al gusto globalizzato. Tenendo a mente la lezione, e la tradizione, degli antenati. Ultimi passeri sul ramo, come avrebbe nuovamente scritto Beppe Fenoglio, che fino a prova contraria la Langa e i langaroli li conosceva bene.
Una produttrice di vino, uno di formaggi, uno di pasta artigianale: i protagonisti di Langhe Doc sono loro. Maria Teresa Mascarello, figlia di Bartolo, patriarca del Barolo austero e di un’etichetta irriverente – “No barrique no Berlusconi” – che finì sotto sequestro per desiderio di un politico locale di centrodestra. Silvio Pistone, produttore di tome a Borgomale nell’Alta Langa, che un bel giorno ha abbandonato il suo lavoro (piastrellista) per inseguire un sogno: cinquanta pecore, un casale disastrato e l’utopia sfrontata di bastare a se stesso. E Mauro Musso, talebano integralista della pasta, ex commesso al supermercato e oggi artefice di “tagliolini inusuali (la parola “tajarin” non può usarla) ad Alba. Realizza la sua pasta con le varietà di grano più astruse, dal farro dicocco alla semola dura “Russello”. Beve solo vino naturale, è convinto che il 99 percento del cibo industriale sia veleno ed è partito da un unico credo: “Avendo conosciuto da vicino la grande distribuzione, ho deciso di fare pasta in maniera diametralmente opposta”.
Uomini e donne in direzione ostinata e contraria, come le vignerons di Senza trucco, altro documentario (di Giulia Graglia) che mostra la parte più spontanea del mondo enogastronomico italiano. Testimonianze ulteriori di un sottobosco quasi-rivoluzionario, talora riunitosi in associazioni (Vini Veri, VinNatur, Triple A Velier), che mira alla salute del consumatore e al recupero del tempo che fu. Quello dove non c’erano i guru americani a dettare la linea per un vino facile, opulento e piacione, perfettino e senz’anima.
Langhe Doc è un piccolo esempio – 52 minuti – di arte della sopravvivenza eretica. Maria Teresa Mascarello racconta di non voler essere soltanto la copia del padre, cosa che infatti non è, poi però parla come lui. Le stesse frasi, la stessa filosofia. Quella che, nei terribili anni Novanta, quando i cosiddetti Barolo Boys si convinsero che era possibile fare grandi rossi abusando di barrique e altri demoni, avevano colpevolmente relegato Bartolo Mascarello al ruolo di fossile. Residuato bellico di un mondo poco redditizio e superato. Il tempo era dalla sua parte, come nelle canzoni lontante di Bob Dylan, ma nel frattempo Bartolo non c’è più e la dialettica manichea tra tradizionalisti e modernisti resta stringente.
Casalis, come Nossiter, tifa per gli indiani e non certo per la grinta posticcia degli epigoni di John Wayne. Gli indiani nativi d’America vivono in riserva. Gli indiani nativi di Langa non paiono meno all’angolo, poco battuti dal turismo e svantaggiati da produzioni esigue, ma resistono. Alla loro maniera: quella dei padri, quella dei nonni. Quella di Giorgio Bocca, che in Langhe Doc compare in un cameo. Le sue parole hanno valore profetico e testamentario: “Nel breve spazio della mia lunga vita, l’Italia è cambiata in maniera spaventosa. Non si è badato a nessun risparmio, si è costruito in grande come se fosse un paese enorme con spazi disponibili per tutti. E invece non ci sono, questi spazi. E’ tutta una lotta contro il tempo. Bisogna riuscire a diventare civili prima che il disastro sia completo. Bisogna vedere se arriviamo ancora in tempo a salvare questo paesaggio. Per me in gran parte l’abbiamo già distrutto”.