Ode breve a Johan Cruyff

cruyffPer quegli strani meccanismi della memoria e della di lei cristallizzazione, una delle prime immagini che torna alla mente dei quarantenni o giù di lì quando pensano a Cruyff, coincide con i giorni che precedettero la finale di Coppa Campioni 1994. Johan Cruyff allenava il Barcellona e, secondo lui, aveva già vinto prima ancora di giocare. Rilasciò dichiarazioni teatralmente tronfie e si fece persino fotografare baciando la Coppa. In campo andò diversamente, il Milan ne fece scempio e in quel 4-0 si vide forse il miglior Savicevic di sempre. Cruyff era anche questo. Se non avevi fatto in tempo a vederlo, ti sentivi come quando ascolti un disco dei Led Zeppelin o dei Pink Floyd: vai a ritroso lungo la corrente della storia. Con la musica, e con il cinema, è più facile: Dark Side Of The Moon è bello come ieri, e così Taxi Driver. Con il calcio è più complicato: è un’arte anomala, che si basa soprattutto sulla passione del momento. E’ un’arte istantanea, che neanche si presta all’epica cinematografica a differenza di boxe o Formula 1. Johan Cruyff non potevi mica scoprirlo guardandone le gesta su Youtube. Potevi però intuirne – questo sì – la portata. L’enormità rivoluzionaria. Da calciatore, da allenatore, da dirigente. Non ci sarebbe il Barcellona di oggi senza Cruyff. Non ci sarebbe stato il Milan di Sacchi senza Cruyff. cruyff 3Già, il Milan. Che era di Capello, nel 1994, ma cambia poco. Milan in cui, stanco e un po’ sbiadito, Cruyff giocò pochi minuti nell’81 durante un Mundialito. Conviveva già con un fisico che cominciava a franare. Sembrava prossimo a vestire la maglia rossonera, poi non se ne fece nulla e tornò a giocare in Olanda, prima Ajax e quindi (col ruolo di libero) nel Feyenord. Trovò pure il tempo di giocare con i giovanissimi Rijkaard, Van Basten e Gullit. Era alla fine, ma vinse ancora. Nel ’94 non ci riuscì, ma in quella sua calcolata
supponenza c’era comunque la stessa – lucidissima – convinzione del proprio valore: inutile fingersi umili, quando si è oltremodo immensi. La ricetta di Muhammad Ali, un altro che restò sbruffone anche quando non era più lui e sapeva per questo che contro Larry Holmes ne avrebbe prese fino quasi a morirne. Costantemente presuntuoso e smisuratamente spigoloso, Cruyff era così pervaso dalla propria grandezza da lasciarla intuire anche a chi non aveva fatto in tempo a vederlo profetizzare sul campo. In ogni posizione del campo: calciatore tuttofare, uomo totale. Per Gianni Brera era “il Pelè bianco”, per Sandro Ciotti “il cruyff 2profeta del gol”. Per Van Basten il più grande di tutti, e se lo diceva il Divino Marco c’era da fidarsi. A quel punto, se scattava la molla della curiosità, e accidenti se staccava, frugare nella sua storia era uno spettacolo. Riformato al militare per i piedi piatti e le caviglie malforme, ovvero per quelle parti del corpo che ne avrebbero giustificato la divinizzazione. Quel numero, “14”, che prima di lui voleva dire riserva e dopo di lui vuol dire Cruyff. Il rapporto con Rinus Michels, gli scazzi con chiunque ne contestasse la natura di Re Sole. La volta che smise e andò negli States. Il tentato sequestro del ’77, che lo traumatizzò al punto da indurlo a rinunciare ai Mondiali militarizzati del ’78. La sconfitta ai Mondiali ’74, il giorno peggiore per gli esteti del calcio. I bypass come troppi cerotti su un cuore stremato. Le parole come lame, lo sguardo come una feritoia, le interviste come extratime di uno spettacolo che non voleva finire mai. Per chi l’ha visto e per chi non c’era, Johan Cruyff è stato collettivo e anarchia. Eresia e utopia. Soldato e generale, soprattutto generale. Artista e proletario, soprattutto artista. (Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2016)

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