Due parole (positive perlopiù) su Mannarino

Schermata 2017-01-24 alle 16.42.02Nell’estate 2009 l’allora trentenne e non troppo noto Alessandro Mannarino gravitò al Festival Gaber. Lo vinse. La sua fu una delle esibizioni più convincenti. Perché fu (era, è) bravo e perché fece un set di soli tre/quattro brani. Quest’ultima notazione, solo in apparenza cattiva, sintetizza la qualità e il rischio della poetica mannariana: poteva – può – reggere alla distanza? Il suo, già allora, era una ruspante centrifuga di maledettismo stornellatorio, Bukowski a fiumi, autobiografismo dichiarato, massicce dosi popolane e un immaginario a metà strada tra Stefano Rosso (con cui condivide la romanità ostentata) e Vinicio Capossela (con cui condivide approccio e immaginario). Ora che è appena uscito il suo quarto disco, Apriti cielo, e ora che Mannarino fa sold out senza con ciò aver smarrito quell’aria (un po’ vera e un po’ studiata) “alternativa”, si può asserire che aveva ragione lui. Il post-cantautorato degli Anni Zero, conscio di non poter ripetere i fasti di Gaber e De André, vive di meteore, artisti che meriterebbero di più e altri di cui la storia non si ricorderà granché. Vasco Brondi ha scritto Piromani, e per questo non verrà dimenticato, ma chissà se concederà un bis così convincente. Il Pan del Diavolo è talento puro, e sarebbe ora che lo scoprissero in tanti. Quanto invece ai Nobraino, Dente e Motta, sarà divertente soppesarne nel tempo il reale peso artistico (laddove tale peso esista). Mannarino ce l’ha fatta, perché ha talento e perché ha saputo creare una comunità (dote, pure questa, assai caposseliana). Chi lo ascolta, e chi lo va a vedere, si sente parte di un gruppo: una sorta di élite a rovescio, spettinata e forse rivoluzionaria, che se ne sbatte delle mode (o così dice) e che reputa inni generazionali brani come Me so’ mbriacato e Bar della rabbia. Mannarino ha saputo trafiggere i ventenni a cavallo di Anni Zero e Dieci come – prima di lui – hanno fatto Vasco e Ligabue (e Capossela: ancora lui). Mannarino sta per certi versi al cantautorato come Fedez al rap: entrambi ormai pop, ma per vie molto traverse e – soprattutto – senza che si dimentichi la loro identità certo ostinata e verosimilmente contraria. La fortuna di Mannarino dipende anche da alcuni amici (il regista Massimiliano Bruno), vetrine radio (Fiorello) e tivù (Dandini). Artista che sa “usare” l’informazione, disseminando le interviste promozionali di slogan esistenzial-ribelli che fanno tanto figo, non ignora che la smargiassata alimenti la fama. La rissa nel 2014 sul lungomare di Ostia, per cui è stato condannato; le bizze da rockstar; le camere non sempre uscite illese dal suo passaggio. Magari è vero e magari no, ma anche l’aneddotica attiene al mondo mannariniano. Un mondo di ribelli, di sconfitti. Di fiammate liriche, di poesie musicate: di vertigini in equilibrio labile, sempre più malinconiche e sempre meno goliardiche. Apriti cielo non è un capolavoro, ma un buon disco sì. A tratti molto buono. E di questi tempi – tempi di cui Mannarino è cantore e cartina al tornasole – non è poco. (Il Fatto Quotidiano, rubrica Identikit, 24 gennaio 2017)

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