“Ed è subito virale”: purtroppo

schermata-2016-09-19-alle-15-38-00Una delle frasi più frequenti in ambito giornalistico è la seguente: “Ed è subito virale”. Più che una frase ormai è un mantra da usare ovunque. Anche quando non c’entra niente. Può sembrare un difetto meramente formale, ma si sa: la forma è sostanza. E allora, forse, non stiamo parlando di un tic giornalistico innocuo ma di qualcosa che può nascondere una colpa imperdonabile: far coincidere l’importanza di una notizia con la sua “quantità”. Fraintendere cioè l’interesse di una notizia con l’impatto che quella stessa notizia, vera o falsa poco importa, ha avuto nel web. Fino a pochi anni fa, “virale” era qualcosa relativo a virus o da essi determinato: qualcosa di malato che si propaga. Forse, per molti versi, lo è anche adesso. Oggi, per “virale”, si intende “qualcosa che si diffonde in modo particolarmente veloce e capillare, utilizzando in maniera specifica i nuovi mezzi di comunicazione”. Può essere una notizia o più spesso un video. In quel sistema spesso autoreferenziale che è il giornalismo, se qualcosa è virale sul web rimbalza puntualmente anche su tivù, radio e cartacei. I “vecchi” media rincorrono quelli nuovi, ansimando e arrancando. Lo fanno per sopravvivere, per inseguire la moda e per sentirsi fighi. Tutto questo, a prima vista non così grave, può divenire pericoloso. E ha come minimo tre difetti. Il primo è cacofonico: “Ed è subito virale” è una di quelle espressioni che andrebbero vietate per legge, come i puntini di sospensione a casaccio, “perché” scritto “xkè” o “piuttosto che” usato al posto di “oppure”. Il secondo difetto è che, se si insegue il virale, spesso si dà ulteriore peso a vicende non proprio esaltanti. Anche il video di Fabio Rovazzi era ed è virale, ma la canzone “Andiamo a comandare” è così orrenda che se n’è giustamente dissociato perfino l’autore stesso. C’era davvero bisogno di parlarne così tanto? Anche i video d’estate di Christian Vieri da Formentera erano virali, ma probabilmente stavamo bene anche senza scriverne così tanto. Inseguire il virale significa eleggere a elemento discriminante non la “qualità” di una notizia, ma la sua “quantità”. E qui veniamo al terzo difetto, che è poi il peggiore. Se il giornalismo – quello online e quello cartaceo – insegue il virale, elevandolo a nuovo monolite, si corre il rischio di sottovalutare la veridicità, e con essa la pericolosità, di quella notizia (virale). Così ragionando torna alla mente il dramma di Tiziana Cantone: anche i suoi video hard, poi condivisi con alcuni “amici” attraverso il cosiddetto sexting, erano purtroppo diventati virali. Larga parte dei media li ha ripresi, spesso riducendoli a fatto di costume che faceva ridere – si pensi alle infinite parodie – e non a evento di cronaca dalle possibili implicazioni tragiche. Qualcuno ha chiesto scusa, molti altri no. Il suicidio di Tiziana ha mostrato in tutta la sua brutalità come ciò che è virale non sia controllabile. Men che meno arginabile. Se la nuova regola d’ingaggio giornalistica diviene la “propensione alla propagazione” di una notizia, allora vale tutto. Allora ha più diritto di pubblicazione una bufala di successo che non una notizia corretta, ma con poche condivisioni. Allora, volendo fare un po’ i tremendisti, si corre il rischio di dar ragione a quel tale, un certo Goebbels, che non si stancava mai di dire: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. E’ troppo? Senz’altro. Ma mitizzare il virale, per un giornalista, è come sostenere che Justin Bieber sia più bravo di John Coltrane perché ha venduto più dischi. Discutibile, come tesi. Anche se molti critici musicali, in effetti, lo pensano davvero. (Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2016)

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