La rivista Liberal ha recensito Il Vino degli altri. L’articolo è di Livia Belardelli. Lo trovo splendido, oltre che lusinghiero, e mi piace pubblicarlo.
“Ho sempre pensato che bere facesse male. Così ho smesso di pensare”. Con questa citazione, a seguito della singolare dedica a Clint Eastwood, comincia Il vino degli altri. Lui, l’autore del libro (non Clint Eastwood), è Andrea Scanzi, eclettico giornalista, scrittore di vino ma anche di sport, cultura e politica. Di chi sia la massima non è dato sapere, così confessa anche lui che l’ha letta su una calamitina regalatagli dalla zia che campeggia, ancora oggi, orgogliosa sul frigorifero. Il vino degli altri è un nuovo viaggio, il seguito ideale di Elogio dell’invecchiamento – la sua prima incursione nel mondo enologico –, è l’esasperazione piacevole dei pregi della fatica precedente. Le capriole linguistiche di Elogio si fanno salti mortali, sciabolate (tecnica d’apertura del vino, esibizionista e un po’ idiota ma di grande spettacolarità e indicibile godimento) assestate con precisione, coup de théâtre che rendono persistente il piacere della lettura. Perché questo libro non ha nulla del piglio didascalico, didattico e affettato di tanti libri sul vino, enciclopedie noiose o autocelebrativi monologhi di esperti ma poco carismatici degustatori/ sommelier/ enogastronomi.
Questo è un racconto, ironico e incalzante, di un appassionato cronista che ci porta per mano sulle sue personali strade del vino, alla scoperta di Bordeaux e Borgogna, del Rodano e dell’Argentina. In un continuo dialogo-confronto con i vini italiani e con se stesso, raccontando esperienze e trovando corrispondenze più o meno condivise tra le eccellenze italiane e il resto del globo – alcune tirate un po’ per i capelli forse, vedi Tempranillo–Sagrantino. D’altronde, dice Scanzi, «le affinità ho voluto cercarle nel carattere dei vini, in quelle dei loro vignerons. Non nella semplice corrispondenza del vitigno». É un racconto per tutti, eno–appassionati e non, non serve conoscere il vino in profondità – semmai proprio la lettura indurrà a incentivare il desiderio di conoscenza enoica – perché sarà la prosa di Scanzi a teletrasportare tra filari e alberelli, tra grandi botti e moderne barriques, tra i vini unici di Borgogna e la Champagne (la Francia la fa da padrone – è ovvio – anche se il quattordicesimo capitolo ci vede – forse – vincitori 4–3), per arrivare a California e Argentina.
A voler escludere qualcuno, gli unici fuori target sono gli astemi. Lo diceva già in Elogio e, nonostante qualche piccola remora, lo ripete qui, «gli astemi continuano a farmi paura, ma da quando ho scoperto che Fernanda Pivano era astemia, un po’ mi sento in colpa. Solo un po’, però: anche i grandi, ogni tanto, sbagliano».
É ironico e autoironico Andrea Scanzi, pittoresco e compiaciuto nel raccontare le proprie goffagini, segno palese dell’uomo sicuro di sé. D’altronde è il suo libro e se lo può permettere senza peccare di superbia né rischiando la figura del vecchio trombone autoreferenziale. Tra l’altro, a fare da contraltare, è una reale competenza del settore.
Sfogliando Il vino degli altri non ci si può non soffermare sulla struttura, meditata ed efficace, che rende piacevole e vorace la lettura. É un libro moderno, nel senso buono del termine, dall’impianto cross–mediale e, se mi si passa il termine, cross–sensoriale. Per ogni capitolo c’è un vino. E una musica. Chiaramente è un divertissement, e diverte. Ad esempio, per affrontare la lettura sul Rodano e i suoi territori arrostiti dal sole l’autore consiglia di sorseggiare un Cuvée Reynard Cornas 2004 – Domaine Thyerry Allemand. Per la musica, Gold di Ryan Adams. Personalmente però, tanto più che non amo associare parole scritte a parole cantate durante la lettura – ognuno ha le proprie idiosincrasie e tra quelle dell’autore, che semina qua e là nella lettura, ci sono le lessico–olfattive: vietato dire sentore di “pan briochato” e “distinta matrice boschiva di Pinot Nero”! – ho apprezzato l’accostamento con Ludovico Einaudi, Una mattina, per il capitolo sul Franciacorta. Così, con Scanzi, se si vuole si legge, si beve, si ascolta musica e magari ci si perde tra le mille citazioni di vino e lande curiose da esplorare.
Tornando al libro, ma questa è visione personale e forse non condivisa dall’autore, si può iniziare dove si vuole. Magari cominciando dal capitolo sul Bordeaux, Cronaca di un amore mai nato, per poi finire con L’essenza dorata, il tokaj ungherese o con Miraggio dell’unicità (Borgogna). Unico accorgimento è andare a blocchi di tre visto che la struttura in qualche maniera lo impone. Capitolo primo: vino del mondo, capitolo secondo: risposta italiana, capitolo terzo: alleggerimento, che poi significa divertente delirio, riflessioni, giochi, fuoco di citazioni, aneddoti e picchi demenziali che rischiano di far esplodere il lettore in sguaiate risate. C’è anche il test per scoprirsi borgognoni o bordolesi, champagnisti o contadineschi ruspanti. A ognuno il suo. Alla fine, ricalcando il format vincente di Elogio, tornano “le dieci cose che penso sul vino” prima e dopo questo libro e un davvero godibilissimo capitolo backstage.
Dicevo un libro cross–mediale e lo dicevo anche in relazione a un’altra motivazione. Insieme al libro infatti, come già per Elogio, è partito il nuovo blog che, ricalcando il titolo, diventa un contenitore di idee, quelle dell’autore, di commenti, quelli dei lettori, e, stavolta, anche di polemiche. L’ironia leggera e scanzonata dell’opera prima qui si amplifica celando sotto la veste canzonatoria e un’irreprensibile dedizione alla verità cronachistica, virgolettati esplosivi che smitizzano il mondo del vino e fanno saltare sulla sedia più di un produttore. Un altro effetto dell’ironia falsamente leggera ma invece affilata, a volte sarcastica, dell’autore. Ma essenzialmente, polemiche a parte, il libro è un viaggio tra i vini del mondo. «Il quesito di fondo (…) è semplice: come sono i vini degli altri? Di cosa sanno? Cosa rappresentano, cosa comunicano?». E allora si passa da vino a vino, tra piroette, voli pindarici, cronaca e un grande romanticismo.
«Credo però, ora e sempre, al vino come compagno di viaggio. Come tramite per la conversazione, la conoscenza, il sapere. Come trip per la scrittura. Come amico fragile nell’inverno (e inferno) del nostro scontento. (…) Credo che il vino sia uno dei pochi vaccini al nichilismo. Un viaggio sull’altalena. Un miraggio conosciuto. Quasi sempre un bel bere» (Livia Belardelli).