Torno dalle ferie, ho un attimo di tempo e pubblico volentieri questa recensione di Franco Ziliani, apparsa nel sito ufficiale dell’Associazione Italiana Sommeliers. Nei prossimi giorni, oltre a riprendere con le recensioni, cercherò di informarvi sulle prossime presentazioni e pubblicherò anche le recensioni de Il mio Vino e di Repubblica Libri.
Per il momento, grazie a Ziliani. E’ una recensione che trovo bellissima. Oltre che (per me) un po’ imbarazzante.
Il vino degli altri: tra Champagne e Garganega con Andrea Scanzi cantore enopop
di Franco Ziliani
Non è proprio recentissima l’uscita di questo libro, il secondo che il poliedrico autore, Andrea Scanzi, aretino, inviato della Stampa di Torino, biografo di Roberto Baggio, con all’attivo libri su Beppe Grillo, Ivano Fossati e altre cose, dedica, da sommelier e degustatore ufficiale A.I.S., al tema vino.
Non avendo però avuto il tempo ed il modo di intervistarlo, come feci tre anni fa, come potete leggere qui, in occasione dell’uscita di Elogio dell’invecchiamento, ho pensato di scrivere ugualmente de Il vino degli altri (Mondadori editore come il precedente) e titolo di un wine blog che Scanzi aggiorna periodicamente e dove appunta le sue impressioni di degustazione e altri commenti vinosi, anche se ferragosto è alle porte ed il libro è già da tempo in libreria.
Lo faccio perché penso sinceramente che questo Viaggio alla scoperta dei migliori vini del mondo (e dei loro rivali italiani), come recita il sottotitolo, sia, soprattutto grazie al suo stile particolarissimo, che è quello volutamente non specialistico, che mi piace definire “eno-rock“, pieno di riferimenti alla musica, al cinema, al costume, alla cultura giovanile, che caratterizza Scanzi, sia un libro che con le sue 320 pagine fitte di incontri, personaggi, impressioni di viaggio vale assolutamente la pena di essere letto.
Magari anche in questo periodo di vacanza, meglio se in campagna, in collina o in montagna, dove c’è più calma e magari un assaggio di vino scandisce il ritmo delle giornate di meritato ozio, che al mare, dove la concentrazione, quella che la lettura de Il vino degli altri richiede, non sempre abbonda.
Cosa ha fatto Scanzi, che, per inciso, ha dedicato questa sua nuova fatica “a Clint Eastwood, con e senza cappello” e confessa di aver pensato ad Apollo Creed “il rivale di Rocky nei primi due episodi della saga” accingendosi a scriverla, per differenziare questo nuovo libro sul vino rispetto ad Elogio dell’invecchiamento?
Semplicemente ha cercato di rispettarne l’impianto, passando da venti a trenta capitoli, con “dieci viaggi all’estero, dieci reportage in Italia, dieci capitoli di alleggerimento”. Stavolta nel libro, come confessa divertito, ha inserito anche una sorta di “backstage. Una trovata adorabilmente infantile per raccontare retroscena, ammantare di presunta saggezza la propria demenza e sentirsi rockstar”. Questo perché gli scribi, come annota, “oltre a essere fingitori come i poeti e i sommelier, sono pure sostanzialmente scemi”.
Scherzi a parte, e ironie e autoironie, che sono comunque, insieme a calembour, ad arditi paralleli tra vino e politica, a trovate ad effetto (che Scanzi sa perfettamente essere tali e di cui appunto prevede e calcola bene l’effetto sul lettore), il libro propone, attraverso un alternarsi di capitoli dedicati a vini esteri (Champagne, Borgogna, Riesling Renano, Rioja, Tokaj, Rodano nord, Loira, Bordeaux) e vini italiani (spostandosi dalla Franciacorta all’Etna, da Bolgheri e Sagrantino alle terre della Garganega, ma Gambellara, quella di Angiolino Maule, non quella del Soave, alla Toscana di Montalcino, alle Cinque Terre dello Schiacchetrà al Trebbiano d’Abruzzo, quello del “cantiniere Zen” Francesco Valentini), una sorta di confronto tra il vino di casa nostra ed i vini che vengono prodotti in altri Paesi esteri.
Un confronto condotto incontrando produttori, visitando cantine e vigneti, assaggiando vini, raccontando, con quello stile tutto particolare, veramente “eno-pop”, servito da una facilità di scrittura notevole, da una capacità tutta naturale di restituire dettagli e situazioni, di raccontare, il diverso modo di intendere il vino, di renderlo un prodotto non solo da bere ma un qualcosa su cui costruire leggende e mitografie, da consegnare all’immaginario, riscontrato e toccato con mano nelle più disparate latitudini.
Ogni tanto, con il consumato mestiere del cronista, che ha il senso e il fiuto della notizia e sa bene che un po’ di polemica rende più saporito il piatto, Scanzi distrattamente, fingendo di ignorare o sottovalutare l’effetto deflagrante di quanto scrive, lascia cadere una carica di tritolo, come ad esempio nell’ormai celebre pagina 131 (provate a fare una ricerca tramite Google e capirete) mette in bocca ad un produttore di Cortona parole di fuoco su vini finti e costruiti in Toscana e sul ruolo di certi enologi.
Oppure quando trattando dello scandalo del Brunello e accennando al giustificazionismo di qualche “guru” del vino scrive “permettiamo ai produttori di mettere dentro al Brunello quello che vogliono. Cambiamo il disciplinare. Così saremo tutti contenti” per concludere che si tratta di “una logica cara a certa politica: se uno ha commesso un reato, e lo si è scoperto con un’intercettazione, la difesa non è che quel politico è innocente. E’ che l’intercettazione è illegale”. O ancora racconta, dal di dentro, avendovi partecipato come membro di una commissione di degustazione, come funziona un concorso enologico e di come i risultati possano apparire sorprendenti o persino stravaganti.
O quando bolla, essendogli chiaramente antipatica e non riuscendo ad entrare nelle sue corde bolla Bordeaux, nel capitolo tutto domande e risposte intitolato “Cento cose da sapere sul vino degli altri”, scrivendo di avercela “con quelli come Michel Rolland e Robert Parker, che hanno fatto carne da macello di una regione già tendente di suo a tirarsela”, o che “a Bordeaux cosa vuoi che gliene freghi del terroir”.
Quella Bordeaux cui dedica un capitolo, dal titolo chiaramente pensato pour épater il lettore di “Cronaca di un amore mai nato (Bordeaux)”, che si apre con queste parole fulminanti e veramente tranchant “ci sono viaggi che ti stupiscono, altri che non ti lasciano nulla. Bordeaux, né l’uno né l’altro. Ci ho trovato quello che pensavo. Lusso, lusso e ancora lusso. Il Bordolese è la parte più americana d’Europa. Tutto è mercato, soldi, affari”.
Tutt’altra musica rispetto ai toni appassionati che riserva alle zone, ai vini, ai personaggi che nel cor gli stan e che ci fa chiaramente capire, con una scelta di campo, quali siano e perché tanto lo colpiscano e gli siano vicini.
Nel libro c’è un piacevole e divertito scherzare su se stessi, sul vino, su certe sue eccessive ritualità, sull’averlo reso una cosa così importante e sempre meno leggera e naturale e piena d’allegria come dovrebbe invece essere, capitoli apparentemente frivoli come il “Test di fine corso: sei Bordolese o Borgognotto?”, ovvero dodici “domande a risposta multipla” che sanno tanto di film di Nanni Moretti oppure suonano come un tentativo di accertare se il sottoposto al test sia “di destra” o “di sinistra”, oppure juventino o interista.
E poi, prima del backstage finale, ovvero “dietro le quinte per perdere quel che resta di una faccia”, trovi, speculare al capitolo iniziale “le dieci cose che pensavo sul vino prima di questo libro”, dove si potevano leggere volontari luoghi comuni tipo “i vini migliori del mondo sono quelli italiani. I vini francesi sono troppo cari. I vini americani sanno di vaniglia”, il capitolo intitolato “le dieci cose che penso sul vino dopo questo libro”.
Un resumé, molto più saggio, anche se sempre costellato di trovate fulminanti e di battute, dove si legge che “i vini migliori del mondo non esistono”, che “i vini “più buoni” sono soggettivi, ma non saranno mai solo e soltanto rossi”, che “lo Champagne, se ben fatto, è una delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio. O anche solo della scarsa credibilità di Sai Baba”.
Tra serio o faceto, tra approfondimenti e vividi ritratti che ti fanno “innamorare” di un produttore e di fanno venire voglia di incontrarlo o di stappare al più presto un suo vino, tra osservazioni che di superficiale hanno solo l’aspetto ma che invece sanno andare in profondità e colgono il segno, il libro, capitolo dopo capitolo, passando dalla “persistenza infinita per ricchi bevitori (Bolgheri)” a “quelli che lo fanno strano”, al “Bignami del Consumatore Iconoclasta” al “vino outtake” alla “uva unplugged che viene dal freddo” a “vini sexy e sogni che continuano”, scivola via bene, ti coinvolge nel suo ritmo sincopato, ti porta dentro, e senza mai annoiare, anche quando le citazioni e le dimostrazioni di intelligenza e di cultura potrebbero un po’ stancare, si fa leggere benissimo. E ti convince di un’evidenza, che per affascinare e coinvolgere il popolo del vino di oggi, i giovani passati al Dolcetto e al Nero d’Avola in transito dalla celebre bibita gasata multinazionale, sono molto più utili libri come questo, cantori dissacranti e con il gusto dell’iperbole enopop come Scanzi, che si ritrovano molto di più nel suo linguaggio che in quello, forse superato e un po’ ingessato, forse troppo paludato e stanco di noi che ci ostiniamo a chiamarci “addetti ai lavori”… (Franco Ziliani)