C’è Pisapia, all’anagrafe Giuliano, e c’è Orlando, il Jack Pisapia che non è uscito dal gruppo. In due non ne fanno uno, o almeno così sembra. Un po’ si somigliano, anzitutto nel collezionare i quasi. Quasi di sinistra, quasi di rottura, quasi alternativi a Renzi. Quasi di opposizione, quasi arrabbiati, quasi ribelli (parecchio quasi). Entrambi odiano il carisma, essendo in ciò pienamente ricambiati. Come noto, una delle ultime frasi scritte da Salinger prima di andarsene fu questa: “Uscendo di casa ho visto un frassino. Mi è parso anonimo, poi però ho visto Pisapia e Orlando in tivù e mi è venuta voglia di rivalutare il frassino”. Pisapia è da un po’ sulle prime pagine, e già questo ci fa capire uno dei motivi della crisi dell’editoria: disquisire di ciò che interessa solo all’editoria, in un continuo trip da metalinguaggio solipsistico (l’ultima frase non vuol dire nulla, ma dà l’illusione di essere arguta. Come gli interventi di Philippe Daverio). Conoscete una persona – non cento: una – che non vede l’ora di votare Pisapia? No. Eppure se ne parla come se, dalle scelte di questo novello Berlinguer, dipendessero le sorti della sinistra italiana. Di più: del paese intero. Di più: dell’intera galassia. Prima che l’iconoclastia ci travolga, com’è poi tipico del Fatto, vanno qui ribaditi due concetti importanti. Uno: Pisapia è una brava persona. Due: Pisapia è stato un buon sindaco. Non è poco: magari, nella sinistra italiana, ci fossero stati più Pisapia e meno Genny Migliore. Da qui però a farne il nuovo Subcomandante Marcos, ce ne passa. Anche perché lo stesso Pisapia, arrogandosi una forza perlopiù immaginaria, prim’ancora di “ricostruire il centrosinistra” ha posto dei veti. Niente Fratoianni, perché lui non vuole; niente Civati, perché lui non vuole; niente Falcone-Montanari, perché lui non vuole. Già così si evince che l’idea di Pisapia, peraltro assai confusa, non è tanto quella di un nuovo centrosinistra ma di un vecchio centro, si presume più accettabile di quello di Renzi (ci vuol poco) e di Alfano (va be’, Alfano). L’uomo non manca di testimonial importanti, da Claudio Amendola a Sabrina Ferilli. Non si capisce però dove voglia andare. E qui torniamo a quel suo collezionar “quasi”. Se umanamente è un galantuomo, politicamente Pisapia chi è? A che gioco gioca? Da che parte sta? Sinora è stato (inconsapevolmente?) uno specchietto per le allodole al servizio di Renzi. Un abbindolatore di delusi di sinistra comprensibilmente schifati dal renzismo, che Pisapia porta a sé con l’illusione di “essere di sinistra”. Per poi però consegnarne i voti a Renzi. In questo senso, Pisapia è a tutt’oggi un fiancheggiatore del renzismo: se è questa la sua idea politica, il suo più che un progetto nazionale è una iattura biblica. Anche a Milano, con quella lista-civetta cara ai Lerner e Vecchioni, non ha fatto che condurre alla vittoria Sala. Cioè un berlusconiano. Cioè Renzi. Tomaso Montanari rimprovera a Pisapia – tra le mille cose – di avere votato sì al referendum del 4 dicembre. E’ però solo una delle tante criticità, anzi ambiguità, di Pisapia. Mentre tutta la stampa di quasi-sinistra ne parla, e con ciò spera (per esempio Scalfari) che assurga a decisiva stampella dell’Allegra Combriccola dei Lotti&Picierno, Pisapia continua a dire tutto e il suo esatto contrario. Prende tempo, tergiversa, cincischia. Se Veltroni era l’uomo del “ma anche”, lui è quello del “quasi”. Quasi renziano, quasi orlandiano, quasi prodiano. Quasi tutto. Quasi niente. (Il Fatto Quotidiano, rubrica Identikit, 4 luglio 2017)
Leggo con piacere questo articolo perché penso anch’io che non sia la persona giusta per la guida del Movimento. Penso anch’io che non ispira fiducia non conosco programma, spero che le primarie siano utilizzate per la designazione del leader