Daniel Day-Lewis non ha sbagliato un film. Non gli è mai riuscito, non se l’è mai concesso. Ora che ha avvertito il rischio di uno smottamento qualitativo, ha fatto l’unica cosa possibile. La più difficile. Oltrepassata la boa di 60 anni, ha deciso di smettere. Pochi per chiunque, ma ancor meno per uno dei più grandi attori di sempre. Ha vinto tre Oscar e avrebbe potuto vincerne almeno altrettanti. C’è una continua inquietudine in ogni suo gesto. Gli aneddoti sulla sua meticolosità si sprecano. Di recente li ha ricordati anche Tom Leonard, in un pezzo prodigioso per il Daily Mail. Quando girava Il mio piede sinistro e interpretava Christy Brown, pretendeva di muoversi sulla sedia a rotelle. Al ristorante dovevano imboccarlo. Quando ordinava risultava incomprensibile, perché usava solo una parte della bocca. Come se fosse davvero Christy Brown: e magari lo era, anzi probabilmente. Così anche per Lincoln. Al suo fianco c’era Sally Field. Interpretava sua moglie. Lui, fuori dal set, continuava a parlare con la voce stridula del presidente e le scriveva messaggi in stile arcaico. Pretendendo che anche lei rispondesse come una vera donna vittoriana. Affittò pure una vecchia casa senza riscaldamento: era pieno inverno. L’aneddotica che ruota attorno al suo iper-camaleontismo, che è poi quel che lo ha reso il gigante che è stato (e a questo punto va usato per forza il passato), l’ha raccolta parzialmente proprio Tom Leonard: “Per L’ultimo dei Mohicani visse sei mesi nella giungla, imparando a scuoiare gli animali, usare l’ascia dei pellerossa e il fucile a pietra focaia. Per Nel nome del padre insistette a studiare masochismo. Si fece chiudere per due notti in cella, senza dormire, per prepararsi all’interrogatorio con poliziotti veri. Chiunque passasse davanti a quelle sbarre, era invitato ad insultarlo”. Eccetera. Potrebbero apparire esagerazioni, e volendo essere razionali – quasi sempre uno sport noiosissimo – lo sono. Ma i geni seguono leggi proprie. Se non lo facessero, non sarebbero geni. Se Daniel non lo avesse fatto, non ci saremmo innamorati ogni volta di Michelle Pfeiffer. Proprio come capita a lui ne L’età dell’innocenza. Il regista era Scorsese. Ancora per lui, in Gangs Of New York, imparò a fare il macellaio: per farsi salire la rabbia, ascoltava Eminem. Il gossip ha cercato molto e trovato poco. I colleghi dicono di non sapere nulla di lui. Menomale. Nessuno lo conosce e forse neanche esiste: esistono i suoi personaggi. Caso estremo di immedesimazione attoriale, a costo di rinunciare alla vita. Al quotidiano. Alla normalità. Quella normalità che, a cavallo tra Novanta e Duemila, lo portò una prima volta a ritirarsi. Disse di voler imparare un mestiere da artigiano vero. Si nascose qualche tempo in una bottega di Firenze, come un garzone qualsiasi, per imparare l’arte del ciabattino. Pare fosse bravo anche lì. Quasi trent’anni fa si ritirò anche dal teatro. Stava interpretando Amleto. Svenne sul palco perché aveva visto il fantasma del padre. Così, smise. Da ragazzo lo bullizzavano perché ebreo, così diventò cattivo come i bulli che lo vessavano: anzi di più. Quando il padre morì, aveva 15 anni. L’anno successivo, si rimpinzò di farmaci. Ebbe un’overdose e finì sotto trattamento psichiatrico. Gli attori, e in generale gli artisti, tendono a buttarsi via. Non smettono mai quando dovrebbero. Capita anche agli sportivi. Sono in pochi a fermarsi all’apice: per non sporcare una carriera preziosa, per concedersi addirittura il lusso di vivere. Accadde a Brel. Sta accadendo a Fossati. Accadrà a Day-Lewis. Grazie di tutto, Fenomeno. (Il Fatto Quotidiano, rubrica Identikit, 27 giugno 2017)
Che bel post, del tutto non convenzionale. Grazie, Andrea Scanzi. Adoro questo attore dalla prima volta che lo vidi e il tuo post gli fa senz’altro onore.