Stefano Accorsi, il riscatto dell’eterno (a torto) “sopravvalutato”

Schermata 2017-05-17 alle 15.51.47Circola in rete una battuta, geniale e fulminante come quasi tutte quelle di Lercio. Dice così: “Raoul Bova assume una controfigura per farsi sostituire nelle scene in cui recita”. La battuta è ottima, e come tutte le battute non è importante poi chiedersi se dica o no il vero. L’ironia, e più ancora la satira, o forzano la realtà o non hanno granché ragion d’essere. Nello specifico, se non fosse stato ritenuto bravo o quantomeno bravino, difficilmente registi come Ozptek, Pupi Avati e Tornatore lo avrebbero scelto. Capita spesso che i bellocci, in quanto tali, vengano ritenuti a prescindere delle mezze calzette: dei miracolati. Succede anche a Stefano Accorsi. Se ne parla molto in questi giorni per la serie 1993, seguito di quella 1992 (partita bene e arrivata malino) “nata da un’idea di Stefano Accorsi”. Una frase tra l’enigmatico, il tronfio e l’involontariamente ironico che ha giustificato sfottò per mesi. Accorsi è perfetto per restare antipatico a molti: dalla vita sembra avere avuto tutto e, per questo, si tira addosso l’invidia dei più. A ciò si aggiunge un carattere non esattamente facile. Permaloso come quasi tutti gli artisti, o più in generale come tutti gli esseri umani, se l’è presa a morte perché due estati fa questo giornale (e chi scrive) lo inserì per gioco in un sondaggio atto a scegliere il più grande sopravvalutato italiano. Era, appunto, un gioco. Che conteneva nomi peraltro non sempre condivisi dall’autore e che, più che altro, avrebbe potuto contenere qualsiasi nome. Anche e soprattutto quello dell’autore del pezzo. Il concetto di “sopravvalutato” è oltremodo soggettivo. Per dire: chi è cresciuto a Springsteen e Pink Floyd reputa drammaticamente esecrabile che gente come i Modà riempia gli stadi, ma se li riempiono hanno ragione loro. E le chiacchiere stanno a zero. Come stanno a zero per quel che riguarda Accorsi. In attesa di capire se 1993 sia migliore o peggiore di 1992, la sua carriera parla da sola. Arrivare a 46 anni con il successo che ha, tenendo conto che tutto o quasi era partito dal «Du gust is megl che uan» di un gelato e da un videoclip degli 883, non era facile da prevedere. Men che meno da ottenere. Accorsi c’è riuscito, tra cinema e teatro, gossip e tivù. A volte ha sbagliato film, più spesso li ha indovinati. E’ sopravvissuto al Nanni Moretti fosco e straziante de La stanza del figlio, ha lavorato con il grande Carlo Mazzacurati e (più volte) con il fortunato Gabriele Muccino. E’ divenuto uno degli autori feticcio di Ozpetek. E’ stato il commissario Scialoja per Michele Placido in Romanzo criminale. Si vede anche nel nuovo Fortunata di Sergio Castellitto. Appare anche in un episodio di The Young Pope di Paolo Sorrentino. Le sue prove più convincenti, forse, risiedono però altrove. Anzitutto in Radiofreccia, probabilmente la cosa migliore fatta da Ligabue (anche se Ligabue la prende come critica). E poi il recente Veloce come il vento di Matteo Rovere (2016). E’ liberamente ispirato alla vita del pilota di rally Carlo Capone. Accorsi interpreta un ex pilota, tanto dotato quanto pazzo. Ormai tossicodipendente, ritrova ragione di vita nell’allenare la sorella minore (anch’essa pilota). Uscito nell’aprile dello scorso anno quasi in sordina, il film ha mietuto premi. Molti di questi sono andati, giustamente, ad Accorsi: Nastro d’Argento, Premio Gian Maria Volonté, David di Donatello. Eccetera. Mica male, per uno che secondo tanti “non sa recitare”. (Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2017, rubrica Identikit)

One comment

  1. vorrei sapere cosa apportano i festival del cinema alla cinematografia, migliorano la qualità del prodotto? Alzano il livello culturale dello spettatore medio? Esiste la certezza che la giuria sia effettivamente imparziale non condizionata da molteplici fattori? Si fanno gli interessi culturali dell’arte cinematografica o solo quelli economici indotti, canalizzati e prodotti da un industria speculatrice?

    La domanda non è scontata né polemica, considerata qualità del prodotto finale proiettato nelle sale, sempre più elaborato con effetti speciali computerizzati più che dal pregio della storia sceneggiata sapientemente, si attirano gli spettatori con la computer grafica condita da racconti imperniati di sesso, sangue, soldi e miserabili vicissitudini umane per carpire la morbosità (debolezza dell’essere umano) al fine di vendere a caro prezzo un prodotto ben confezionato ma dal contenuto di scarsa qualità.

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