“L’amicizia vive di contrappesi tutti suoi, di bilanciamenti, di non detti, di un codice Morse che serve anzitutto per superare le frizioni. Per tollerare la lontananza. Per non dimenticare che l’amicizia è l’antidoto più efficace allo scorrere del tempo e l’unica cosa che, ai massimi livelli, riesce perfino a fottere la morte”. Ma anche “una strana malattia appiccicosa”.
E’ vero, non vale prendere un pezzo di libro per cominciare quella che dovrebbe esserne la recensione (ammesso che il genere esista ancora). Non ce ne vogliano i lettori, una ragione c’è ed è presto detta: I migliori di noi (da oggi sugli scaffali delle librerie con Rizzoli) di Andrea Scanzi è soprattutto un libro sull’amicizia, con svariate e insperate e sfumature di tenerezza. Insperate perché è difficile anche solo sospettarle dall’immagine pubblica dell’autore (può trasmettere l’idea di pensare al mondo come a un posto popolato di troppa gente che in una gara d’idiozia riesce a perdere). Ci sono Max e Fabio, cinquantenni, amici, ex fratelli ammesso che si possa diventare ex nella fratellanza. Uno di loro ha tradito, o sembra averlo fatto. Quasi a sua insaputa, per superficialità, noia, horror vacui. Di certo soldi e successo non sono stati gratis. Si paga tutto e qui si paga il prezzo dell’abbandono e dell’opportunismo: il mondo non sempre è dei furbi, non è vero che vince chi dimentica. Fabio è rimasto a casa, non ad aspettarlo, semplicemente a vivere. Non ha bisogno nemmeno di perdonarlo, l’aveva fatto prima del suo imprevisto rientro in città. L’avrà aiutato Federica, compagna di tutta la vita, un amore miracolosamente sopravvissuto integro alle pantofole e ad altri accidenti della routine? L’avrà aiutato Bergie, adorabile e acutissima esemplare di Leonberger (un canone, mezzo San Bernardo mezzo Terranova), dotata di qualità telepatiche? Forse Fabio è semplicemente uno che sa come va il mondo, non è mitomane, sa che nel rapporto con l’altro (e più in generale nella vita) noi facciamo e diamo quello che possiamo mentre l’altro è con noi; è uomo abituato alle assenze, visto che suo figlio Marco, ormai adulto, vive a Londra e non telefona tutti i giorni.
Le cose vanno o non vanno: lo sa bene Fabio che per vivere scrive fiction (di successo) per Rete4. Non proprio un sogno, ma dà da mangiare. E magari lo sa anche Max che ha avuto la ventura (fortuna forse non si può dire) di scrivere una canzone di super successo trent’anni prima: il massimo che gli può capitare è ricevere una mail da Alex Britti o Ligabue (deliziosa perfidia dell’autore) che gli domandano se possono farne una cover. Lui sul computer tiene un file con la risposta valida per tutti, si limita a un copia-incolla nel testo-mail: cambia solo il nome dell’intestazione. Nei suoi occhi si vedono roteare i dollari come in quelli di Zio Paperone, ma l’ombra che sta dietro è il vuoto. Ha una risposta prefabbricata e la salvezza maledetta dell’immortale (non per dire, è diventato un classico) brano Dammi il bikini (non provate a cantarlo, chi scrive l’ha incautamente fatto e non è consigliabile). Della rockstar gli è rimasto solo tingersi i capelli e incassare le royalties. Infatti è lui il destinatario della domanda più dolorosa: “Perché mi hai lasciato solo per tutti questi anni? Eravamo i migliori. I migliori di noi. Tra fratelli figli unici, non si fa”. Si possono rincollare i cocci? Risposta: sì. Il mastice è il vino, la musica, la bici (tutti ingredienti che si trovano anche nel precedente La vita è un ballo fuori tempo, di cui rispuntano personaggi e suggestioni: l’arzillo ottuagenario Vaiana, il giornale la Patria, un cane telepatico).
Il racconto, dice Calvino, “è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo”. E il tempo di questa storia, oltre al palleggio passato-presente, è quello di un’attesa, la più temibile: l’esito di un esame medico a cui Fabio si è sottoposto. Ma, a dispetto delle paurosissime circostanze, non è una prospettiva disperata. Il tempo dell’aspettare è riempito, naturalmente di bilanci (e di elenchi), ma anche di molta leggerezza dell’essere. Di piaceri in barrique, battute, riscoperte, bariste meravigliose (ce n’è una anche nel primo romanzo). Lo spazio è invece una città non immaginata ma reale. Arezzo, cui l’autore sembra voler restituire qualcosa, forse – azzardiamo – autonomia e distanza dalla straripante narrazione della toscanità “che piace e va incontro” come la sinistra che fu: Etruria non è solo una banca. E la colonna sonora (c’è, questo libro suona)? Tra le tantissime citazioni, vince una di Roger Waters: “Lo sai che mi importa di quello che ti succede/ e lo so che anche tu ti interessi di me/ Così non mi sento solo/ o non sento il peso della pietra”. Dopo aver raccontato le fragilità della generazione dei figli nei precedenti due libri, questa volta Scanzi si occupa dei padri: lo fa maneggiando con cura la materia, con il suo abituale sarcasmo, molte note umoristiche e continue sottolineature. Ma non ci sono giudizi universali da dispensare, solo vite da illuminare.
Proust – che di questo legame non sembra avere una gran idea – scrive che “Il piacere dell’amicizia si basa sulla menzogna che vorrebbe indurci a credere di non essere irrimediabilmente soli”. Non è detto sia vero. Forse l’amicizia è davvero un farmaco per creature “continuamente minacciate di morte, cioè tutti gli uomini”. Fabio e Max ve lo spiegheranno. (Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2016. Articolo di Silvia Truzzi)
Silver Silvan on 21 febbraio 2012 at 2:39 said:
Farsi un nuovo amico può essere esaltante a 50 anni come a 20. Tuttavia, tradizione e continuità hanno un loro valore particolare, e il luogo comune che i vecchi amici siano sempre i migliori risponde senz’altro al vero. In un’amicizia di lunga data entra in gioco un interesse comune che a ogni incontro risveglia armoniosi echi del passato, profondamente sentiti anche se materialmente non sono udibili.
Forse, dato che il mondo é così mutevole e senza radici, una semplice pietra di paragone risalente a tanti anni prima diventa una pietra angolare che dà forma e significato alla nostra vita e che ci fa sentire un po’ meno instabili in un deserto che cambia forma di continuo.
L.E. Sissman