Il silenzio di Dylan? Il suo ulteriore capolavoro

schermata-2016-10-22-alle-20-29-38C’è qualcosa di sublime, e al tempo stesso di profondamente coerente, nell’ostinato silenzio con cui Bob Dylan ha accolto il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura. Gli altri litigano, e più che altro rosicano. Lui, il diretto interessato, se ne sta zitto. Lontano da tutti e pienamente a suo agio nella parte di quello che sa benissimo che lo si nota parecchio di più se, alla festa, non viene. Ieri, a dire il vero, per qualche ora è parso che Dylan avesse accettato il Nobel. Nel suo sito ufficiale è comparsa la scritta: “Winner of the Nobel Prize in Literature”. Una frase inconfutabile, forse inserita da qualche curatore zelante senza avvertirlo. Poche ore dopo quella dicitura era però scomparsa: nessun riferimento al Nobel. Vuol dire che Dylan non ritirerà il premio? Non si sa. Non lo sa neanche lui: più ancora, probabilmente, non si pone il problema. Questo silenzio è un capolavoro nel capolavoro. Lo sberleffo ulteriore di un artista quasi sempre prodigioso che, da cinquant’anni, cerca di smarcarsi da se stesso. Tutto il mondo lo ricorda per la prima metà dei Sessanta, quando era il cantante più venerato del pianeta: non più uomo, bensì Profeta. Il ragazzo che malediceva i signori della guerra, ascoltava le risposte nel vento e avvertiva come i tempi stessero per cambiare (lui diceva in meglio, ma l’umanità ha poi disposto diversamente). Molti parlano di Bob Dylan come se fosse ancora quello di The Freewheelin’, l’album del 1963 in cui nella copertina passeggia spensierato accanto alla fidanzata di allora Suze Rotolo. Solo che, nel frattempo, Bob Dylan è morto e risorto una decina di volte almeno. Si è inventato la trilogia elettrica nel 1965, primo tentativo di smarcarsi dalla iconografia folk del “menestrello di Duluth”. Ha avuto un incidente motociclistico a Woodstock, che ha assecondato la voglia neanche più latente di nascondersi (all’apice del successo, per giunta). Ha partecipato in condizioni diversamente lucide a concerti-evento (il Concert For Bangladesh di George Harrison, The Last Waltz con The Band). Ha inciso dischi orrendi e capolavori (Blood On The Tracks, Oh mercy, Time out of mind). E’ andato ora avanti e ora indietro, ma fermo non c’è stato proprio mai. Neanche dopo i gravi problemi di cuore da cui è uscito con la stessa voglia di suonare ogni giorno, all’interno di quel Never Ending Tour in cui l’unico obiettivo pare essere quello di cantare (non sempre) malino e stravolgere (sempre) i brani più famosi. Il Nobel alla Letteratura avrà fatto risuonare in lui l’allarme del “rischio-profeta”. Un ruolo che detesta e che lo terrorizza, al punto da averlo portato a fine anni Settanta a una provvisoria riconversione da “rinato cristiano”. Durante i concerti parlava così: “Loro cercavano di convincermi di essere un profeta. Adesso prendo posizione e dico che Gesù Cristo è la risposta”. Si reinventò un Dio a cui credere per smettere di immaginarsi lui stesso Dio, sbronzandosi di misticismo e facendo incazzare (tra i tanti) John Lennon, che scrisse senza mai terminarla una risposta laica alla dylaniana Gotta serve somebody (“Qualcuno devi servirlo”). Si intitolava, non a caso, Serve yourself: “Servi te stesso”. Forse Dylan rifiuterà il Nobel come Sartre o forse lo ritirerà, però malvolentieri. Col consueto caratteraccio e con l’antica civetteria di alimentare il proprio mito con l’assenza. Ogni celebrazione, del resto, gli ricorda un passato ingombrante. Da cui non smetterà mai di fuggire. (Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016)

2 Comments

  1. non capisco se il commento è partito, (se era già partito, mi scuso per il doppione) comunque era era: Bravissimo Andrea Scanzi, si vede che conosci, e “bene”, Dylan e la sua musica. Concordo pienamente, (anche su Baricco, che non si capisce perchè…)

  2. ma quale capolavoro! Sta vagliando i pro e contro, il menestrello consapevole del regalo ricevuto cerca di capire se mediaticamente meglio rinunciare o riceverlo.

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