De André e le canzoni rifatte dopo l’ascolto del ragazzo del bar

deandre1Milano, viale Papiniano. E’ una tarda sera del 1996 e Fabrizio De André sta urlando a squarciagola in mezzo alla strada: “Sono la pecora sono la vacca!”. La gente, tutt’attorno, lo guarda stranito. Non sa, non può sapere, che sta cantando Princesa circondato dai rumori del traffico per renderla più vera. Non sa, non può sapere, che quel brano aprirà l’ultimo album in studio della sua carriera. Proprio “In studio” è il titolo di un cofanetto di 14 cd in uscita oggi per la Sony Music. Raccoglie i 13 album in studio di De André e tutti i singoli. Segue di tre anni “I concerti 1975-98” (ancora Sony) e costa 99 euro. “Molto meno di quello che costerebbe scaricare tutte le canzoni della discografia di Fabrizio su iTunes”, sintetizza la moglie Dori Ghezzi. Che annuncia anche un biopic: “Faremo un film su Fabrizio nel 2017, ma manca ancora il protagonista”. Non ci sono inediti, perché De André non ne ha lasciati (“ma qualcuno forse li ha”, dice Dori). L’opera è comunque impreziosita da un libro a colori di 196 pagine con foto e dichiarazioni. Parla De André, in virgolettati tratti da interviste e concerti, ma parlano anche i tanti collaboratori che lo hanno accompagnato. Quarant’anni di musica, coltivando spigoli e un’idea quasi sacrale della parola: “Bisogna stare attenti a quel che si canta e si scrive, perché poi la gente ci crede”. E’ l’insegnamento più grande che De André ha lasciato a Ivano Fossati, che ne ha incrociato spesso il cammino. Da Creuza de mà (1984) in poi, De André rallentò oltremodo i tempi di scrittura: un disco ogni sei anni. “Da giovani si scrive più facilmente”, racconta Dori. “Soppesava sempre di più le parole: sapeva di dover preservare non tanto il personaggio, quanto la sua carriera”. Già nel 1978 raccontava: «Incido molto poco, almeno secondo il mio editore e le necessità finanziarie di un qualsiasi autore. Ma se non ci fosse questo editore a strapparmi i nastri di mano, inciderei ancora meno. Mai, forse. Questo perché la mia continua ricerca della verità non approda mai ad una conclusione: appena ho fatto un testo, una canzone, ecco che vorrei cambiare, aggiornare. E appena esce il disco vorrei distruggerlo: mi sembra inutile, sorpassato». De André è amato così tanto per una serie di fattori. Per la voce, per il talento, per la preveggenza. Per la lungimiranza nel farsi sempre accompagnare dal compagno di strada migliore: i fratelli Reverberi, Riccardo Mannerini, Giuseppe Bentivoglio, New Trolls, Nicola Piovani, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, Pfm, Mauro Pagani, Fossati, Piero Milesi. E per questa propensione alla tutela smisurata di se stesso: nel suo canzoniere non c’è mezza sillaba sprecata. Anche quando gli arrivavano testi già sviluppati, cambiava le parole giuste perché le canzoni divenissero da normali a straordinarie: è il caso, tra i tanti, di quella “Hotel Miramonti” scritta da Bubola che divenne “Hotel Supramonte”. Uomo per niente facile, De André, tormentato e in qualche modo condannato a un’idea faticosissima di perfezione. Diceva di sé nel 1993: “A parte Dori che non ho mai voluto cantare, l’unico esemplare con cui oggi posso dire di avere un rapporto di scambio della verità sono io stesso. Diffidate di me”. Lavorare con lui era emozionante e faticoso. “Spesse volte – ha raccontato Milesi, arrangiatore di Anime salvescomparso nel 2011 – su un brano che era ancora imperfetto proprio perché era in fase di elaborazione, in modo lapidario diceva: ‘E’ tutto una merda’. E lì veniva fuori il lato distruttivo”. Spigoloso, ma corretto. “Seguiva ogni parte del lavoro”, ricorda Iafelice, che curò i missaggi di quello stesso disco. “In studio gli prendeva una rigidità, una severità che incuteva timore, ma fuori era diametralmente opposto: molto rilassato, a cena chiacchieravamo di tutto. Era esigente, ma sapeva restituirti quanto ti chiedeva”. De André teneva molto al parere degli ascoltatori occasionali. Era la “prova del ragazzo del bar”. Una prova che terrorizzava i musicisti. “Il parere dei collaboratori era importante, ma in qualche modo cerebrale”, dice Dori. “Fabrizio voleva che le sue canzoni piacessero anzitutto a chi entrava per caso in studio. Era un ascolto più istintivo, più emotivo: per molti versi più attendibile”. La storia di De André è dipesa anche da molti ragazzi del bar. Uno di questi, nel 1990, entrò in studio mentre tutti stavano ascoltando la versione definita di Don Raffaè. Lasciò le pizze e andò via. De André si incupì e poi disse: “Va rifatta da capo”. Pagani, allibito, chiese perché. “Perché quel ragazzo non ha sorriso ascoltandola. Neanche se n’è accorto”. La rifecero. E venne molto meglio. (Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2015, Extended Version).

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