La mia intervista a Niccolò Fabi

“Sussurro, perché se fossi provocatorio sarei ridicolo”

di Andrea Scanzi
5 agosto 2025

Niccolò Fabi è un’anima pura e un artista di rara intensità e profondità. Il suo ultimo disco, splendido, si intitola Libertà negli occhi. Da ottobre sarà nei teatri di tutta Italia in tour. L’ho intervistato alla Gaberiana, il festival che organizzo ogni estate a Firenze, e il colloquio è proseguito nei giorni successivi.

Libertà negli occhi nasce da un viaggio.
Scrivo canzoni da più di 40 anni, la prima la composi a 13, e la creatività col tempo non ti sostiene più allo stesso modo. Così ho associato alla scrittura del disco un viaggio nella Val di Sole con sei amici, in uno chalet isolato e lontano da tutto, per continuare a vivere questa splendida follia che è scrivere canzoni. Senza pensare che sia un mestiere o che poi ci sia un pubblico che valuta e compra. Se pensi all’aspetto commerciale mentre scrivi, limiti la creatività. Un viaggio di questo tipo, al contrario, ti può aiutare a ritrovare la gioia e la vitalità che nel tempo fatalmente decadono.

Hai una sorta di ossessione di perdere la creatività.
La creatività ha a che fare con la fertilità, c’è proprio un elemento biologico. A 25 anni, ormonalmente e chimicamente, siamo al massimo. Poi invecchiando la creatività in qualche modo resta, muta e matura, ma la canzone è una forma d’arte particolarmente legata alla giovinezza: i primi amori, la scoperta, l’impegno politico. La canzone ha bisogno di bianco o nero, invece crescendo diventi più sfumato e meno lucente. Ecco: io
passo tutti i giorni a cercare di dare lucentezza a ogni mia fragile canzone.

Ti domandi mai quale sia il ruolo dell’artista?
Costantemente. L’artista deve essere se stesso, e non tutti sono uguali. C’è chi sussurra all’orecchio delle piccole confidenze e chi declama salendo sul palco. Ho un’attitudine che mi porta molto più facilmente a sussurrare. Ho quella voce lì. Se fossi provocatorio sarei ridicolo, non perché sia sbagliato provocare, ma perché non sarei proprio capace di farlo. Credo che si possa incidere sulla vita delle persone anche solo quando fai colazione al bar; quelle due o tre parole che dici, e come le dici, possono cambiare la giornata delle persone che incontri.

Come ti trovi sul palco?
Male. Sono timido, impacciato. Io sono un osservatore e un narratore, non uno che ama stare in mezzo alla scena. Se ho una comunicativa su qualcuno, credo dipenda dal fatto che vedono lo spettacolo di una persona in difficoltà che – nonostante quella difficoltà – si mette in gioco, e questo risulta confortante per molti, perché si rivedono nella mia insicurezza. Ho un tipo di timidezza che non sfocia nel mutismo, ma che provoca un’accensione: un rossore, un sudore che genera una comunicativa. Negli anni ho capito – scusa l’immodestia – di avere per qualcuno un ruolo. Sono consapevole di non poter
fare che questo, cioè stare sul palco, e lo accetto.

Chi ha avuto un ruolo nel tuo apprendistato?
Inizialmente non i cantautori italiani. Sono prima musicista e poi autore di testi. Ancora oggi, quando mi fanno domande solo sulle parole, un po’ mi infastidisco. La musica è fondamentale: se dico “Resta con me” urlando con una musica rock ti racconto una cosa, se dico sempre “Resta con me” sussurrandolo però con un quartetto d’archi cambia tutto. Questa cosa che il testo conti più della musica non l’ho mai sentita mia.

Mi fai qualche nome?
Anzitutto anglosassoni, su tutti James Taylor e Joni Mitchell. Tra i cantautori italiani, ho sempre ascoltato quelli più “diagonali”, quelli in cui non c’era “troppa parola”. Penso a Bennato, Fortis, Graziani: gli  riconoscevo una musicalità più sorprendente. Gaber l’ho scoperto dopo: un pensatore libero e un oratore fantastico. Lo vidi all’Olimpico di Roma a fine anni Novanta: bravo come nessuno a costringerti a tornare a casa e avere un pensiero in più. Oggi posso dirti che, come grammatica della canzone, devo moltissimo a Ivano Fossati. Uno straordinario speleologo delle dinamiche interpersonali.

Sarebbe felice di sentirselo dire. Lo hai conosciuto?
L’ho visto una volta sola, a una cena. Mi disse due cose che mi sono rimaste impresse. La prima è che soffriva del fatto che, quando le donne si avvicinavano a lui, davano in qualche modo per scontato che lui parlasse anche nella quotidianità con la stessa poeticità con cui si esprimeva nei brani. La seconda è che non vedeva l’ora di vivere la vita senza avere più il filtro di colui che scrive le canzoni, per godersi ogni attimo e basta. C’è riuscito, perché ha smesso quando voleva di fare dischi. Lo capisco: noi cantautori pensiamo sempre a scrivere canzoni anche quando non vorremmo, che sia durante una chiacchierata o un viaggio, un bacio o un tramonto, e finiamo col non goderci mai il momento. Non ci spegniamo mai.

Ti immagini mai come interprete di brani altrui?
Mai. Non sarei capace. Se non canto cose mie, il microfono diventa un luogo molto inospitale. Anche quando a inizio carriera militavo in una cover band dei Police, suonavo la batteria. Me ne stavo in disparte, non cantavo e stavo benissimo. Ho cominciato a cantare a 20 anni, in una band che faceva matrimoni e feste di laurea, dopo aver fatto inizialmente il bassista.

Sei cresciuto artisticamente in un locale romano dove si sono fatti le ossa alcuni dei più grandi attori e musicisti italiani.
Si chiamava “Il Locale”, alla faccia dell’originalità. Silvestri, Gazzè, Zampaglione dei Tiromancino, Latte & i suoi derivati (con Lillo e Greg), Favino, Mastandrea, Papaleo, Giallini eccetera. Non c’era il “localaro”, non ti chiedevano di fare cover ed eravamo liberi. La bravura degli altri ti costringeva ogni giorno a migliorarti. La sfida ci stimolava sempre. Era il ‘92/95, una Roma diversa. Ogni sera vedevi qualcosa di interessante. Quando passò Carmen Consoli, anche solo durante il soundcheck ci “aprì la faccia”. Pure i Subsonica. E quelle “frustrazioni” erano per noi carburante per migliorarci.

In quel locale che ruolo aveva il giovane Fabi?
Mi facevano suonare a San Valentino e poi tutti i 14 del mese. Mi pare che il mio genere, nelle locandine, fosse definito “love core”. Ero una sorta di specchietto per le allodole per le ragazze, perché pare che fossi belloccetto. E non era un complimento, ma una presa per il culo. Essere belloccetto non è una cosa positiva tra colleghi. In più venivo dai Parioli, ero figlio di un produttore musicale… insomma partivo malissimo.

Tu, Silvestri e Gazzè avete detto che, se un giorno doveste divenire un quartetto, non avreste dubbi sulla scelta: Samuele Bersani.
Confermo. Consideriamo Samuele l’autore dei testi più belli. E’ un uomo che ha una meravigliosa fragilità. Hai sempre voglia di abbracciarlo. Tra me e lui facciamo gara a chi è più fragile. Credo però che tecnicamente non sarebbe possibile: noi nasciamo come musicisti e abbiamo un aspetto musicale più dominante. Samuele non può avere quella stessa spensieratezza nel suonare, è meno giocherellone e più cantautore. Infatti scrive meglio di tutti noi. Gli voglio un bene dell’anima.

Quando ricevi complimenti come reagisci?
Questa è difficile… Non so dirti se non credo di meritarli o se in qualche modo fingo inconsciamente che non dicano a me, perché sento che quel complimento può non aiutarmi nel farmi stare bene. Provo a spiegarti. E’ come se evitassi i complimenti perché, ogni giorno, devo fare un percorso interiore tra il non essere sicuro di me e il sentirmi sicuro di me, e se qualcuno mi fa i complimenti magari poi mi adagio. E non faccio più quel percorso di crescita quotidiana. Il complimento mi mette in imbarazzo, perché mi fa sentire per certi versi “fermo”. E questo mio approccio, senz’altro contorto e un po’ nevrotico, mi ha permesso forse di sentirmi sempre in movimento, e non anchilosato come molti miei coetanei.

Qual è lo stato d’animo più ricorrente nelle tue canzoni?
Oh, sono tutte uguali (sorride): malinconia fissa, ovunque. E’ il mio colore più ricorrente. Le persone, nell’ascolto della musica, si dividono in due grandi categorie. Quelli che cercano un’atmosfera completamente diversa dal loro stato d’animo, magari in quel momento triste, e che quindi cercano evasione e allontanamento dalla realtà. E quelli che, invece, ricercano nell’ascolto una musica che ricalchi il loro stesso essere giù di morale, per poter superare quello stato d’animo sentendosi confortati e in compagnia. Io sono adatto a questa seconda tipologia. Vado sempre a cercare la malinconia e la commozione. Ho
sempre ascoltato quella musica lì e mi ha salvato la vita. Così, inconsciamente, spero che magari accada anche a qualcuno che mi ascolta.

Il Fatto Quididiano