E’ parso quasi commuoversi, Roger Waters, alla fine della prima data newyorckese di “Us+them”. Barclays Center di Brooklyn, 11 settembre. Non un giorno qualsiasi, men che meno qui a New York. Lui, uno degli artisti più smisuratamente spigolosi e ancor più smisuratamente geniali delle galassie, a fine concerto lo dice. I 18mila – sold out o giù di lì – non smettono di applaudire e lui, tra una pausa emozionata e l’altra, dedica la serata a tutte le vittime innocenti della guerra. E’ in giro da Waters praticamente ogni sera, Stati Uniti e Canada (forse Italia nella seconda metà del 2018 o 2019), ed è ormai un compiaciuto animale da palcoscenico. Con i Pink Floyd, che ha fondato con Syd Barrett e poi guidato/dominato fino a The Final Cut del 1983, non lo era. Non così, almeno. Nella fase psichedelica saliva sul palco, urlava belluinamente in Careful With That Axe, Eugene e non nascondeva i demoni con cui combatte dalla nascita (ora perdendo e ora no). Dopo il successo di Dark Side Of The Moon, l’alienazione prende il sopravvento, al punto da portarlo a sputare a un provocatore idiota a Montreal nel ’77 e a scrivere poi The Wall. Una volta solista, patisce il fatto che i Pink Floyd restanti riempiano gli stadi mentre lui, pur avendo accanto Eric Clapton, no. Così, con i live smette. Per poi ricominciare a fine Novanta, anni dopo quel capolavoro che era e resta Amused To Death. Da allora Waters ha regalato spettacoli straordinari per resa sonora e visiva: uno dei suoi marchi. E’ stato così per l’In The Flesh Tour, è stato così per The Wall . E’ così anche per Us+Them. Parte quasi in sordina, con interpretazioni “normali” di Breathe, Time e The Great Gig In The Sky (in cui le due coriste dei Lucius, che lo accompagnano, non convincono). Molto meglio One Of These Days, unico recupero da Meddle, e una strepitosa Welcome To The Machine. La parte dedicata all’ultimo disco, Is This The Life We Really Want?, trova il suo apice con Deja Vu. Durante Picture That ha problemi al microfono. Due tecnici entrano tardivamente, lui li caccia via: probabilmente, a fine primo tempo, sono stati scotennati con giustezza. Ottima una Wish You Were dolentemente country, poi mini suite da The Wall con The Happiest Days Of Our Lives e Another Brick In The Wall Part 2 e 3. E qui Roger gioca in casa. Se la prima parte è buona, la seconda è monumentale. Si apre con un gigantesco schermo che cala dall’alto e squarcia in due il Barclays Center, riproducendo le ciminiere di Animals. Con le suite di Dogs e Pigs (quest’ultima dedicata interamente a Trump), si vola verso vette quasi imbarazzanti per noi umani. Money convince meno, poi però c’è Us and Them e si piange. Inesorabilmente, com’è giusto che sia, perché quando Richard Wright lo voleva tu lo facevi. Small The Roses convince più live che su album. Quindi l’apoteosi finale di Brain Damage ed Eclipse. Il bis è il trittico Vera, Bring The Boys Back Home (entrambe acustiche) e Comfortably Numb. Si vola. Waters scende dal palco e saluta le prime file. Ha sempre la maglietta nera aderente, jeans scuri e gambe infinite da fenicottero. Sorride e pare addirittura felice: qualcosa di inaudito per lui. Dice che in questo tour avverte “un grande amore” e senz’altro pensa al padre morto ad Anzio, perché ogni cosa che fa è per lui. Magari pensa pure a David Gilmour, secondo cui Roger è uno che si arrende solo quando muore. Quando glielo riferimmo, durante l’intervista per Il Fatto, inizialmente se la prese. Poi capì che non era una critica, ma un complimento. E a quel punto disse che sì, lui è davvero uno che si arrende solo quando muore. Il pane della sua vita è la sfida: rendere possibile l’impossibile. Lo era il live di The Wall, lo sono anche queste due ore di Us+Them. Alla prossima, Roger, se vorrai che una prossima ci sia. (Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2017)
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