Sulmona – Foligno, 13 maggio 2016
Costretto a parlar di ciclismo per non far danni scrivendo di politica, nel biennio 1947-48 Indro Montanelli scoprì due cose. La prima è che il Giro d’Italia, ai suoi occhi conservatori, poteva essere addirittura prossimo al microcosmo perfetto: “Un mondo buono e d’altri tempi, paesano, polveroso e generoso, dove s’incontrano incanutiti, ma sempre uguali a se stessi, Garrone e De Rossi, la piccola vedetta lombarda e gli aneddoti dei nostri babbi. (..) Chi non ha conosciuto tutto questo, è come chi non ha conosciuto suo nonno (..) Nessuno è orfano più di lui”. Si stupirebbe, Montanelli, di come settant’anni dopo quel “giro saragatiano” non si sia smarrita (non del tutto, almeno) quell’atmosfera. Neanche adesso che il Giro ha 99 anni, e giusto ieri è transitato per 211 chilometri da Sulmona a Foligno. Tappa interlocutoria, da velocisti, piena di quei figli di un dio minore che scattano non per vincere ma per ricordare – a sé e agli altri – di esserci: di esser vivi. Come Eugert Zhupa, che due giorni fa ha macinato 129 chilometri di fuga su 157 di tappa. Ovviamente non vinta. Sulmona, borgo di rara bellezza, è città dei confetti, patria di Ovidio (“ricchissima di gelide acque”) ma pure di Milly Carlucci e Gabriele Cirilli. Passò anche da qui Papa Celestino V, quindi a L’Aquila (ieri si è passati anche da lì) e poi morire in solitudine a Fumone. Del suo pontificato fugace, assediato com’era dai demoni e ossessionato dalla fuga, Celestino V diceva di non aver capito quali fossero state le cose buone e quelle cattive: troppo simili tra loro. Santo eremitico, Celestino V era amato dal popolo per le sue guarigioni e temutissimo dalla Chiesa. Con la sua rinuncia credette di incentivare una nuova fase cristiana, felice e giusta. Al contrario gli subentrò l’Anticristo, cioè Bonifacio VIII. Non distante da Sulmona c’è Pacentro. Un piccolo luogo da cui proviene la nota famiglia Ciccone, quella di Madonna. Un altro Ciccone, stavolta Giulio, al suo primo anno da professionista è giunto ieri secondo nel Gran Premio della Montagna del Valico della Somma, quando mancavano quaranta chilometri al traguardo. Ciccone è cognome comune in Abruzzo e Giulio, infatti, è di Chieti. Di sé, nelle sporadiche interviste che ha concesso (o che per meglio dire gli han chiesto), dice di amare polenta taragna e arrosticini: ardita dieta, per un ciclista.
Si diceva però di Montanelli, dei suoi due anni di confino ciclistico e delle sue (almeno) due scoperte. La prima fu la bellezza popolare del Giro. La seconda fu la valenza politica del ciclismo. Un po’ ce la voleva vedere per forza, al punto da riscontrare tracce di De Gasperi in Bartali, che preferiva di gran lunga al più giovane – e più idolatrato – Coppi. E un po’ c’era sul serio. Così, nel 1948, il Giro parve a Indro “saragatiano” nel senso di liberale e democratico, intriso di quel socialismo “buono” che aveva portato Saragat a strappare da Nenni per poi appoggiare De Gasperi. Se allora era “saragatiano”, può dunque dirsi “renziano” questo Giro? E che vuol dire renziano, e cosa avrebbe voluto dire per Montanelli? Domande capziose e pleonastiche, che vien però bene chiedersi mentre la tappa si snoda placidamente (per noi: per i ciclisti è una fatica bestia) tra Le Svolte di Popoli e L’Aquila, Terme di Cotille e Spoleto, Abruzzo e Umbria. Terre di Gheddafi, Lee Oswald e vini. Triade azzardata, sì, ma non del tutto folle. Sui vini, molto da dire: mentre il gruppo sfida il maltempo, è piacevole riprovare un Trebbiano Spoletino macerato e, per gradire ancora, un rifermentato in bottiglia proveniente dal Monte Subasio. E’ una delle fortune del ciclismo: permette di divagare, divenendo spesso null’altro che pretesto enogastronomico. Gianni Mura ce lo insegna da anni. Su Lee Oswald, basti ricordare che il fucile con cui ammazzò JFK, tre colpi in neanche nove secondi, veniva da Terni. Il killer lo acquistò via posta a una cifra ridicola, 12 dollari, e del resto era un residuato bellico di Prima e Seconda Guerra Mondiale. Quanto infine a Gheddafi, per vie molto traverse si innamorò di un posto di queste parti, Antrodoco, visto dai finestrini della sua auto mentre raggiungeva il G8 de L’Aquila. Promise di investirci un sacco di soldi e in tanti vollero crederci: non se ne fece di nulla, va da sé.
Foligno si avvicina. Già in due occasioni, 1968 e 2014, una tappa si era chiusa qui. Vince ancora Greipel, seconda tappa quest’anno e quinta assoluta per lui al Giro. Nessuna novità in classifica generale: l’olandese Dumoulin ancora maglia rosa, pronto domani a giocarsi le sue carte da specialista di crono sulle vie del Chianti. Fuglsang a 26 secondi, Zakarin a 28, Valverde a 41, Nibali (ottavo) a 47. Oggi Foligno-Arezzo, con il temibile sterrato dell’Alpe di Poti, reso ancora più insidioso dalla probabile pioggia battente. Valverde, uno dei favoriti, prevede: “Una giornata complicata che farà abbastanza danni, con la pioggia lo sterrato diventa fango”. A Montanelli, probabilmente, sarebbe piaciuta. (Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2016)
Foligno-Arezzo, 14 maggio 2016
Doveva fare selezione e l’ha fatta. E’ mancata solo la dimensione platealmente epica, che è poi spesso prossima al sadismo. Ovvero la pioggia, che nello sterrato dell’Alpe di Poti avrebbe dovuto generare fango e dolore, come a Montalcino sei anni fa. Nulla di tutto questo, ma la classifica ne è uscita comunque stravolta. Crolla la maglia rosa Dumoulin, domina Gianluca Brambilla, 28 anni e fin qui nessuna vittoria di rilievo. Lombardo di nascita e vicentino di adozione. Brambilla ha indovinato la giornata così giusta da ritrovarsi non solo vincitore, ma addirittura maglia rosa. A un italiano non accadeva dallo scorso anno, Fabio Aru, ma lì fu solo per un giorno. E poi Nibali tre anni fa. Lo Squalo, a proposito, ha tenuto ed è ora quinto a 45 secondi. Davanti a lui, quarto a 36 da Brambilla, l’altro favorito Valverde. Dumoulin, che oggi cercherà il rilancio nella crono (la sua specialità) sulle vie del Chianti nella crono, nona tappa di questo 99esimo Giro, si ritrova 11esimo a 1 minuto e 5 secondi.
Brambilla è andato in fuga da subito, assieme ad altri dodici. Poi, a 25 chilometri dal traguardo di Arezzo, via Ricasoli, sotto il Duomo e a due passi dalla casa natale del Petrarca, è fuggito via e ha fatto gara con se stesso. Che è poi, spesso, la gara più difficile. Montanelli, di quegli Etruschi che da qui non se ne sono poi mai andati davvero, diceva: “Non conoscevano le biciclette. Ma, se le avessero conosciute, non c’è dubbio che ne avrebbero messa una nelle tombe dei loro morti insieme ai vasi, alle anfore, agli otri di cui le dotavano”. Doveva proprio essergli piaciuto tanto, a Indro, quel biennio 1947-48 nel Purgatorio del Giro d’Italia. Qualcosa di non politico, però (anche) politico. Qualcosa tornato attuale con il libro “Indro al Giro” curato da Andrea Schianchi ed edito da Rizzoli. Qualcosa di così diverso, il ciclismo, da permettere la divagazione. E la riflessione. Vale ancora oggi. Guardi Brambilla in fuga: costante fuga. Lo vedi attraversare come un domino etrusco Monterchi e Le Ville, Anghiari – con quel prete lontano eternato da Ivan Graziani – e Ponte alla Chiassa, Quarata e San Leo, il traguardo volante di Indicatore e Ponte a Chiani. Lo segui mentre cerca di non perdere mai la postura da crono, anche se questa non è una crono, però lo diventa quando attorno a te non c’è nessuno se non gente (tanta) che ti applaude sperando che l’incanto resista chissà come alla fatica. E in tutto questo, mentre lo sterrato dà segno di sé e dall’Alpe di Poti porta verso la Foce dello Scopetone e quindi Via Giotto, un tempo versione aretina di Via Parioli, ti chiedi cosa sia poi la fuga. Se qualcosa di unicamente agonistico o, piuttosto, anche esistenziale. Ancora Indro: “Credevo che fosse l’uomo che, a un certo punto, si mette a pedalare più forte degli altri e li semina per via. Erratissima nozione. La fuga è invece un grande urlo e un gesto disperato che mettono d’improvviso in confusione tutta la carovana del Giro”.
Di disperato, e non troppo urlato, c’è l’impresa di un ciclista (sin qui) un po’ qualsiasi anche nel cognome. Chissà perché ha trovato se stesso, o la sua proiezione migliore, proprio qui. Qui dove la bellezza la vedono più i turisti che gli aretini, forse distratti e certo mai troppo bravi a valorizzarsi. Qui dove ti muovi nel centro storico, che folgorò Benigni ne La vita è bella come Pieraccioni in Un fantastico via vai, e a ogni casa scopri che c’è nato qualcuno: qui Petrarca, lì Giorgio Vasari, là Guido Monaco. Eccetera. Potere di un passato ricchissimo, che oggi ha ceduto troppo spazio (non tutto, per carità) alle beghe tristi di Banca Etruria, alla versione debole dei Fanfani (cioè i Boschi) e al ricordo fresco di Licio Gelli, nato a Pistoia ma per tutti “aretino”. Eppure Arezzo resta bella, anzi bellissima. Di quel bello che sopravvive a tutto: anche alla troppa poca attenzione. Quel bello etrusco e dunque spigoloso. Adatto ai tornanti e agli strappi, agli sterrati e alle fughe. (Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2016)
Bello…veramente toccante…grazie