La festa per i 40 anni di Repubblica comincia con un video che garantisce: “Non abbiamo cambiato carattere”. Forse una excusatio non petita, forse (purtroppo) una tesi non più sostenibile dopo la deriva iper-renziana. Repubblica si celebra e lo fa con gusto e sfarzo, all’Auditorium di Roma, in una maratona che parte poco prima delle 20.30 e termina attorno all’una di notte. La sala tiene 1200 posti, per nulla esauriti. I due presentatori, Ernesto Assante e Gino Castaldo, commettono poi l’errore di invitare i presenti ad allontanarsi dopo l’intervento di De Benedetti e dei tre direttori (Scalfari, Mauro, Calabresi): “Sarà una maratona, se volete uscite e fate un break”. Molti li prendono troppo alla lettera, sfilano via e non rientrano più, stazionando al piano terra tra prosecchi tristi e scaglie sparute di grana. “Mangiamo alla faccia dell’Ingegnere”, scherza qualcuno, ma più che un buffet pare un omaggio tardivo all’austerity. Chi se n’è andato dopo la parte giornalistica della serata, ha sbagliato. Si è perso Mark Hanna Super Band, Alex Britti, Luca Barbarossa, Di Battista (Stefano, non Alessandro). Tornatore, Telesforo, Arbore. De Gregori, Proietti, Venditti, Saviano. Eccetera. Una lista infinita, ora arricchita e ora indebolita da messaggi video. Tipo Jovanotti, che – in concerto a Dusseldorf – ha mandato una clip mediamente sconfortante. Passaggio forte: “Assante e Castaldo compiono 40 anni? Ah no, li compie Repubblica. Eh eh eh”. Eh eh eh. La serata è stata troppo lunga, ma piacevole. Con almeno due apici: l’intervento di Eugenio Scalfari, salutato con due standing ovation, e il monologo di Fiorello. Pochi, in sala, gli ospiti politici: Boldrini, Zingaretti, Tronca, Gabrielli. E’ stato letto anche il messaggio di auguri del Presidente della Repubblica Mattarella. Renzi non c’era e non è mai stato evocato da Ingegnere e tre direttori. Forse perché non era il caso, forse per non rispondere alla domanda che più inquieta: con l’arrivo di Calabresi, Repubblica diventerà (ancora più) renziana? Si vedrà. In platea Augias, Giannini, Zucconi, Damilano, Linus e Gruber. A un certo punto è partito il video live di “Heroes”, tributo naturale a David Bowie. Un po’ festa e un po’ celebrazione, pubblico non giovanissimo e neanche caldissimo (ma affettuoso sì). L’intervento di Carlo De Benedetti, pubblicato ieri su Repubblica, ha ricordato la scommessa iniziale del 14 gennaio 1976: Scalfari ci credeva molto, l’Ingegnere per niente. Ascoltare di fila Scalfari, Mauro e Calabresi ha involontariamente dato la sensazione di un giornalismo col tempo indebolitosi, anzitutto nei riferimenti culturali e nei fondamenti intellettuali.
Calabresi ha avuto il merito di provare a muoversi in punta di piedi, conscio dell’impresa enorme – e degli scetticismi – che lo attendono. E’ perfino entrato prima che lo presentassero, per evitare forse l’imbarazzo di un applauso fatalmente meno intenso dei precedenti. Ha detto quel che Calabresi dice sempre: che il giornalismo “è davvero il mestiere più bello del mondo”, che “sono cambiati i mezzi di distribuzione ma non il dna del giornalista”, che “ho fatto il giornalista perché sono curioso del mondo”. Sulla permanenza di Scalfari, convinto a restare perché “l’atmosfera di Repubblica” contempla necessariamente il suo pezzo domenicale “anche se il direttore non lo condivide”, ha accettato il parallelismo nonno/nipote. Scalfari: “Più che papà ormai sono nonno. Anche di Mario. E i nonni vogliono bene ai nipoti, sì, però quando sbagliano glielo dicono”. Calabresi: “I nonni ti sgridano, poi però ti viziano”. Castaldo ha provato a scongelare la piemontesità di Ezio Mauro, ma è stato respinto con perdite: “I piemontesi hanno un difetto: la testa dura. Ma hanno anche un pregio: la testa dura”. E alla domanda di Assante sul fatto che i giornalisti di Repubblica si sentano intimamente superiori agli altri, ha risposto così: “La differenza di Repubblica è quella di sentirsi club (pronunciato “cluuub”) dei nostri antenati. Siamo un giornale senza correnti e questo è un miracolo, perché sappiamo che la cosa comune vale più dei singoli. Sappiamo che sopra di noi c’è un tetto chiamato Repubblica”. Una sintesi che dà l’idea di un’appartenenza che spesso sfocia nel sentirsi parte di una Chiesa laica, tanto illuminata quanto dunque superiore. Della serata di ieri resteranno soprattutto due cose. La prima è Fiorello, che ha sbertucciato anche Renzi: “Nel ’76 aveva un anno e già si arrabbiò perché Repubblica non pubblicò la notizia del suo compleanno”. Fiorello ha poi genialmente insistito sullo snobismo di Repubblica. In questo modo, di colpo, ha ravvivato la serata e soffiato via la polvere dell’autoreferenzialità. “Mi hanno chiamato, ma si vergognavano di mettermi tra gli ospiti accanto a De Gregori. A Repubblica piace solo la nicchia, io in tivù facevo il 53% e quindi facevo cacare. Sono stato a visitare la villa dell’Ingegnere a Dogliani: non è lei ad avere la vista sul Cervino, è il Monte Cervino che guarda la villa. Nel ’76, quando siete nati, io leggevo E-Iacula e Zora La Vampira, però grazie a voi scoprii che Repubblica si scrive con due ‘b’. Comunque la serata ha poco ritmo, siete venuti per divertirvi e dietro le quinte la gente si sta sentendo male. Ve lo giuro. I pompieri ci sono solo per Venditti. Gli chiedono di smettere di fumare, e lui: ‘Nun me rompete er cazzo!’. La situazione è davvero drammatica”. Se Fiorello è stato travolgente, Scalfari ha mostrato un candore insospettabile. Autoironico, abile nel giocare con i presentatori, sobriamente commosso nel ricordare i tempi andati. Esilarante (sì, esilarante) nello svelare alcuni dialoghi con Papa Francesco. Tenero (sì, tenero) nel citare l’esergo (anzi “exergo”) di Proust. E malinconicamente crepuscolare nel dimostrare in pochi minuti come certi maestri, ora condivisibili e ora per niente, incarnano un giornalismo la cui eleganza – e spesso bellezza – non ha forse figliato quanto era lecito sperare.
(Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2016)
ma la Repubblica non è di proprietà di quel fenomeno che anni addietro acquistò la mitica industria Olivetti per fare business senza capire nulla di elettronica e informatica?
Un fenomeno al contrario che non comprese un fico secco delle potenzialità espresse e inespresse del know now 100% italiano in quel polo industriale che fu all’avanguardia nel mondo, precorse i tempi 20 anni prima della Apple e Microsoft, a quei tempi alla Olivetti lavoravano ingegneri eccelsi capaci di materializzare il futuro che oggi adoperiamo quotidianamente, esempio l’Ing Federico Faggin negli anni 70 emigrò negli USA per lavorare e trovare finanziamenti per realizzare un progetto che ha stravolto il mondo, tanto quanto l’invenzione della ruota, il primo microprocessore in silicio e anni dopo inventare il touch screen degli attuali i-phone!
Così come F. Faggin in quel periodo per colpa degli incapaci imprenditori emigrarono all’estero dalle industrie e università italiane decine e decine di intelligenze capaci di innovare, inventare e produrre in settori diversi l’economia realizzando il benessere ma in latri Paesi, pensate a quanti MLD di Dollari Apple e Microsoft più tutto il settore versano in tasse nelle casse dello Stato USA.
L’Olivetti sarebbe diventata nel settore PC leader nel mondo con un business di centinaia di MLD di Euro l’anno!!!
La stessa cosa si sta ripetendo oggi, con la vendita dei gioielli industriali pubblici, gli stranieri sanno quanto sapere tecnologico contengono, fanno shopping a prezzi irrisori grazie ad una classe politica nostrana di infami, incapaci e corrotti.
E’vero,Fiorello ha fatto risaltare,con la sua verve,l’elitarieta’di Repubblica,quasi spolverandola nello stesso tempo,nella sua(passata)eleganza.Scalfari,ondivago,forse non ha seminato bene,e comunque in questa costante e continua decadenza ha le sue colpe,come l’editoriale in cui spiegava agli italiani(io direi”osava”spiegare agli italiani,in una forma di erroneo paternalismo)”perche’ bisognava votare Renzi alle Europee”E già Renzi aveva avuto modo di farsi conoscere.Quelle che che mi hanno colpito piu’di tutte sono state le parole di De Benedetti:”le realtà editoriali devono essere strutture per la democrazia”,perche’,non so perche’,le ho subito intese come”strutturali”,e,piu’che alla democrazia,al potere espresso in suo nome.Forse condizionata dalle lotte che hanno preceduto il cambiamento di Direttore,che,comunque,un peso significativo e”indicativo” lo ha senz’altro.Si’,Scalfari come espressione di un passato che e’stato anche bello ed elegante,fa melanconia,ma anche la frase di Ezio Mauro su quanto gli”costasse”andar via..Comunque,gli elementi per una nuova serie su Fox ci sono tutti!