Piero Ciampi, il poeta dimenticato

ciampi 2Tra pochi giorni compirebbe 80 anni, un’età che ha fatto di tutto per non raggiungere. Riuscendoci. Ha bevuto una vita intera, “come un irlandese”, per avere le “carte in regola” e una cirrosi che suggellasse l’ultima uscita di scena. Invece se l’è portato via un cancro alla gola, a neanche 46 anni e a conferma che “Il corpo/ è un sublime/atroce/ porco”. Piero Ciampi era nato a Livorno nel 1934, in uno dei quartieri più antichi (il Pontino) di una città complicata: “Sono arrabbiato per tre buoni motivi: sono livornese, anarchico e comunista. Livorno è un’isola, è la città più difficile per tutti, anche per me. Perchè a Livorno c’è tutta la contraddizione di questo mondo: ci sono gli americani, c’è il più grande Monte di Pietà che si possa immaginare, io ne so qualcosa. C’è anche una delle più numerose comunità ebraiche in Italia. A Livorno sono nati il partito socialista e quello comunista. Ecco, io sono il Robinson Crusoe di questa isola che poi è un mondo”. Sottovalutato e per nulla compreso (a volte neanche da se stesso), ha creduto nella canzone d’autore italiana prima di chiunque altro. Probabilmente troppo prima. Ha speso quasi tutto il suo tempo a sperperare se stesso, in un nichilismo ostinato che ha lasciato perle, aneddoti e rimpianti. Come ha scritto Simone Coacci su Ondarock.it, “Piero Ciampi è un avanzo di “bohéme”, ha sbagliato secolo. Un anarchico di Bianciardi. Un clochard, un capocomico senza compagnia, il demone che si nasconde sul fondo dell’ennesima bottiglia. È la mina vagante che fa saltare in aria lo iato apparente che c’è fra mercato e ideologia”. Durante il periodo militare, a Pesaro, conobbe il compositore Gian Franco Reverberi. Recluta ribelle, si scazzottava coi “nonni”, declamava poesie inventate sul momento e scriveva lettere d’amore alla figlia del comandante “degne di Cyrano de Bergerac”. Visse per un po’ a Parigi, frequentando Céline e imbattendosi in Brassens. Scriveva i testi sopra i tovagliolini da cocktail, viveva di espedienti e somigliava a Felix Lèclerc. I parigini lo chiamarono “Piero Litalianò”. Fu il nome d’arte del suo primo album, voluto da Reverberi e notato da nessuno. I versi lambivano Vian e Becaud, la discografia milanese gli consigliava di cantare alla Modugno: un mix irrisolto, che rese ancora più criptico quel talento da nomade irrequieto, che aveva imparato a suonare il contrabbasso da autodidatta e fondato la prima band con i fratelli Paolo e Roberto. Tutti morti – come lui – prima del padre Umberto, venditore di pelli. A Livorno lo ricordano ancora, alto (1.86), sempre spettinato e mai sobrio. Lo si incontrava spesso, come ricorda Riccardo Venturi su Bielle.org, all’Osteria dei Terrazzini, meglio conosciuta come Enoteca Mannari. Da ragazzino si guadagnava da vivere come impiegato alla Razzaguti Oli: il suo primo lavoro e forse anche l’unico. In pochi hanno creduto in lui e quei pochi, a volte, un po’ se ne sono pentiti. Gino Paoli lo ritiene tuttora “il più poeta di tutti, l’artista vero, egoista e folle come tutti gli artisti veri”. A fine anni Sessanta propose Ciampi alla RCA, spacciandolo come un fenomeno prolifico e affidabile. La casa discografica si fidò e concesse a Ciampi ciampiun anticipo impensabile. Lui lo prese e spese tutto subito. Quando tornò per chiederne ancora, la RCA maledì Paoli e retrocesse Ciampi a una sottoetichetta marginale: si chiamava “Amico” e avrebbe pubblicato i suoi album migliori, “Piero Ciampi” (1971) e “Io e te abbiamo perso la bussola” (1973). Entrambi scritti con il musicista Gianni Marchetti, dotato e sottovalutato pure lui, autore di colonne sonore per film surreali (“I vigliacchi non pregano”, “Muori lentamente… te la godi di più”). In un mondo neanche troppo ideale, oggi la coppia Ciampi-Marchetti figurerebbe accanto ad altre giustamente celebrate come Mogol-Battisti o De André-Pagani. Gli estimatori di Ciampi erano sparuti ma noti. Ezio Vendrame interruppe letteralmente una partita (del Padova) quando lo vide sugli spalti: voleva salutarlo come meritava un Artista. Ornella Vanoni desiderava a tutti i costi un album scritto da lui, ma Ciampi si rese irreperibile e perse anche quel treno. Aznavour si innamorò della sua “Tu no” e lo portò in Rai a “Senza rete”. Prima di entrare, Ciampi si inchiodò e disse che non se ne faceva nulla. Odiava la tivù. Paolo Villaggio, che avrebbe fatto lo stesso anni dopo con De André alla Bussola di Viareggio, lo spinse sul palco. Fu una delle sue esibizioni migliori: era molto ubriaco, era quasi stonato, era Ciampi. Dalida lo interpretava, Radio Capodistria lo trasmetteva, De André lo amava (Guccini no). Ciampi piaceva ai suoi simili e dunque ai poeti. A Roma frequentava Alfonso Gatto, si confrontava con Alberto Bevilacqua e giocava a scacchi con Carmelo Bene. Alberto Moravia abitava davanti a Ciampi. Moravia aveva un merlo, che ispirò il brano omonimo di Ciampi. Nella finzione, il cantante minacciava di mangiarsi il merlo. Nella realtà, Moravia strozzò il merlo sul serio, in uno dei non sporadici eccessi di ira. Tra i pochi a sopravvalutare Ciampi, troneggia la Domenica del Corriere: “Questo giovanotto si chiama Piero Litaliano e il suo nome, fra qualche mese, sarà sulla bocca di tutti: sono già pronti i dischi, i manifesti e gli slogan pubblicitari. […] Fra sei mesi, un anno al massimo, Piero Litaliano sarà popolare come Mina. […] è il cantante nuovo costruito scientificamente per il 1962”. Nel 1976 partecipò a una registrazione televisiva Rai con Renzo Zenobi e Nada, che tre anni prima aveva inciso un disco con testi di Ciampi (“Ho scoperto che esisto anch’io”). La Rai non l’ha mai trasmessa e poco è cambiato con “Piero Ciampi, no!”: reputandolo troppo avvinazzato e dunque sconveniente, lo speciale fu mandato in onda in clandestinità (il 3 agosto alle 13). Nel 1976 si esibì al Premio Tenco. Rifiutò le telecamere. Entrò in scena barcollando e in ritardo, troppo preso dalle discussioni etiliche con il patron della rassegna Amilcare Rambaldi. Lo fischiarono. Lui: “Taci tu, parla quando te lo dico io perchè, scusami, se tu vuoi parlare
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vieni qua: io rischio, te no!”. Altri fischi. Lui: “Dè, ma te perchè ‘un ti ‘ompri un sassofono?”. E via così. Poi però solo applausi. Con il pubblico litigava di continuo. A Firenze, nel 1975, abbandonò il palco senza neanche terminare il primo brano: “Sono il cantante più pagato d’Italia, 300mila lire per mezza canzone”. Si prese a cazzotti con Califano, reo di non avergli offerto da bere, e mandò a quel paese Silvan perché le sue magie erano scontate. Negli Anni Sessanta scompariva spesso. Lo avvistavano in Spagna, Irlanda, Inghilterra, Svezia e Giappone. Ha avuto molte compagne, ne ha amate davvero due: “Erano belle, bionde, alte, snelle. Ma per lui non esistono più”. La prima, Moira, irlandese, scappò dopo neanche un anno di matrimonio e si portò via il figlio. La seconda, Gabriella, romana, resistè otto mesi. Da Gabriella ha avuto l’altra figlia, Mira, citata nella relativamente celebre “Il vino”. Frequentò, poco e suo malgrado, anche la musica commerciale. Gaetano Pulvirenti, fondatore della Karim, a metà anni Sessanta gli affidò la direzione della Ariel. Doveva scrivere brani orecchiabili per autori di successo. Portò Gigliola Cinquetti al quarto posto a Sanremo, poi la Ariel fallì. Dissipatore instancabile di se stesso, ha lasciato canzoni indelebili, un’idea di arte romanticamente guerreggiante (“Non si combatte con le armi ma col cuore”), continue fughe in avanti e un rosario di vaffanculo. Il più noto è quello di Adius, che parte come una canzone quasi canonica d’amore per poi esplodere in uno sfogo liberatorio: “Mi vuoi stare vicina? Noooo? Ma vaffanculo. Ma vaffanculo. Sono quarant’anni che ti voglio dire…ma vaffanculo. Ma vaffanculo te e tutti i tuoi cari. Ma vaffanculo. Ma come? Ma sono secoli che ti amo, cinquemila anni, e tu mi dici di no? Ma vaffanculo. Sai che cosa ti dico? Vaffanculo. Te, gli intellettuali e i pirati. Vaffanculo. Vaffanculo. Non ho altro da dirti. Sai che bel vaffanculo ti porti nella tomba?”. Sapeva di essere bravo (“Ha tutte le carte in regola/ Per essere un artista/ Ha un carattere melanconico/ Beve come un irlandese/ Se incontra un disperato/ Non gli chiede spiegazioni”) e gridava minacce smargiasse alle donne e alla vita (“Dai, dai, coricati, vai che ti sganghero! Te lo faccio vedere chi sono io!”). Ha vissuto poco e sempre contromano, non conoscendo altre strade se non quella meno facile da percorrere (Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2014).

6 Comments

  1. Complimenti Andrea! Dategliela la voce!
    Ma che dico, noi diamogliela, lui ce l’aveva eccome, ed era sbilenca, ubriaca, di quel fradicio meraviglioso, una burbera melanconia al suo stato grezzo, bella come Piero l’ha fatta. E ora ce la piangiamo noi, in groppa questa la mettiamo e col piede in pozze dolcissime ce la cantiamo.
    E allora la sua voce, la beviamo tutta noi, insieme a Piero, l’artista zoppo sui tetti di Livorno.
    Grazie Andrea. Grazie Piero.

  2. Briào, pazzo e cor sangue abbollore.
    Con un genio selvaggio e un cuore indomabile.

    Mi piace pensare a lui come al livornese per antonomasia, capace di prendere a cazzotti tutto il mondo da solo e di morire d’amore con la stessa facilità.

    Bòna piero!

  3. Da livornese dico..grande Scalzi, uno dei migliori in assoluto, è sempre un piacere vederti e leggerti. Sono un grandissimo fan di Piero Ciampi che dire, Questo articolo è bellissimo..grazie infinite Leo.

  4. Grandissimo artista…il suo degno (secondo me) erede a Livorno è sicuramnete Bobo Rondelli….leggendo questo articolo bellissimo ssembra di ripercorrere anche l’attuale vita del Rondelli.Grazie Andrea.

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