Ligabue non ama granché le interviste (“Non so se mi capiscono e peggio ancora se riesco a farmi capire”). Qui, però, si è raccontato a tutto tondo come raramente aveva fatto sinora. Pubblico, privato, sogni, mostri e cicatrici. In gran forma (“Corro molto: quelli come noi che lavorano anzitutto con la testa, hanno bisogno di raffiche continue di endorfine”). Garbato, riservato, timido e sincero. Pronto a un nuovo tour da ottobre nei teatri (“Alla batteria ci sarà mio figlio Lenny, musicalmente è molto più bravo di me”). Felice per la mostra fotografica su di lui realizzata a Correggio, con scatti splendidi di Jarno Iotti. Come sempre su e giù da un palco.
(Nota a margine: io e Liga ci conosciamo da trent’anni e non ci parlavamo da quindici, per questioni legate a recensioni birbe, ruggini sceme e orgogli idioti. Quindi questa è una chiacchierata e al contempo un tardivo, ma felice, ritrovarsi).
Ti sei sempre definito un gran timido che, sul palco, supera le paure.
Sono arrivato a 850 concerti. E’ il mio primo motore: scrivo per fare concerti. L’emotività mi travolge così tanto che a volte trascuro l’interpretazione canora.
E la timidezza?
Non so spiegartelo bene, servirebbe un percorso di terapia. Non è una trasformazione, ma semplicemente una parte di me che – sul palco – esce. Se non fosse uscita, sarei rimasto troppo compresso.
Il tuo primo concerto?
In un circolo di Correggio alle quattro di pomeriggio. Seconda metà degli Ottanta. C’erano 70 persone, molte delle quali ascoltavano le partite. Per me fu un’epifania: scoprii che sul palco ero a casa mia. Ci stavo proprio bene. Durante un concerto sono così sicuro di me che, in alcuni momenti, più che cantare urlo. Per anni ho messo a repentaglio le mie corde vocali: urlavo troppo.
La tua famiglia?
Molto semplice, ma straordinaria: ho pescato un jolly buono nel nascere in quella famiglia lì. Mi hanno cresciuto con dei valori che avevano sempre a che fare con il sentimento. Questa cosa l’ho presa su: credo di essere molto chiaro sentimentalmente. Il rock è pieno di artisti vittime della “rabbia della compressione”, causata da famiglie disfunzionali. Io proprio no. La mia ferita è stata un’altra.
Quale?
L’essere stato adolescente negli Anni Settanta. I miei quindici anni coincidono con l’apertura delle radio libere, l’esplosione dei cantautori, il senso di appartenenza alla politica, la voglia di cambiamento. Tutta questa fiducia è poi morta prima nella degenerazione delle droghe e della lotta armata, poi nella disillusione degli Ottanta.
Ed è lì che scrivi Non è tempo per noi.
Certo: il sogno non poteva più essere realizzato. Questa ferita è senz’altro una delle mie cose più irrisolte. Non riesco a mettere da parte la mia componente più idealistica: sono sempre quello che ha ancora la faccia tosta di trasmettere speranza.
Nel 1980 fai anche il militare.
Un inferno. Ero a Belluno, nonnismo puro, mi hanno sempre trattato come il “reggiano terrone”. A parte i gavettoni pieni di piscio di mulo, ho subìto quasi di tutto. Era anche colpa mia: non accettavo proprio di star lì in caserma. Mi hanno salvato Altri libertini di Tondelli e due dischi: Dalla di Lucio e Patriots di Battiato.
Che vedi due anni dopo a Correggio.
Era uscito La voce del padrone, successo enorme. Arriva lui, coi sandali e gli occhiali da sole. Ora: Battiato era un grande, ma sex symbol proprio no. Invece sale sul palco e tutte cominciano a lanciargli reggiseni e mutandine. Due gnocche enormi accanto a me lo guardano e dicono: “Come me lo farei!”. Lì ho cominciato a pensare che da grande avrei voluto fare il cantante.
Hai mai avuto paura di essere risucchiato dalla lotta armata o dall’eroina?
No, per niente. Ero e sono proprio agli antipodi. Ho sempre aborrito qualsiasi idea di violenza. Odio le armi, non ho mai fatto a botte con nessuno. Le droghe? Ho fatto le mie esperienze sporadiche, canne più che altro, ma mi hanno sempre attratto zero.
Mai iscritto a partiti?
Mai. Vengo da una famiglia che ha sempre votato PCI. Io stesso ho votato PCI, ma non sono mai riuscito ad aderire interamente a un’idea organica di partito.
E oggi?
Sono ancora di sinistra. Da tanto tempo mi sento rappresentato male, però alla fine voto. Sempre. Un po’ mi turo il naso e un po’ voto “contro”, più che “per”. E’ chiaro che mi sento vicino al Pd, che però nel tempo ha perso molta determinazione. In questo senso credo e spero che i 5 Stelle costringano il Pd ad essere netto – non si può non esserlo – su temi come pace, verde, reddito di cittadinanza e salario minimo garantito.
Il governo Meloni ti fa paura?
No, paura no. E’ un governo di destra, che ha bisogno di un’opposizione di sinistra. E’ una politica permanentemente in campagna elettorale, i social hanno modificato in peggio tutto, e sono molto contento che Berlinguer non sia mai stato su Tik Tok.
Come hai fatto a fare il consigliere comunale?
(ride) La mia vita è piena di “perché no?”. Mi chiesero di candidarmi a Correggio come indipendente PCI: perché no? Poi ho visto come funzionava, ho capito che la cultura per loro era l’ultima voce del bilancio, e dopo due sedute ho rassegnato le dimissioni. Non c’entravo un cazzo.
Il momento più assurdo della tua vita?
L’estate del ‘90. Lavoravo all’Arci di Reggio Emilia come responsabile spettacoli, dovevo piazzare i concerti. E quell’estate capitava che una sera accompagnavo i Pogues e quella dopo facevo un concerto mio. La ricordo con nostalgia pazzesca: il mio mondo cominciava a dischiudersi, e al tempo stesso vedevo dietro le quinte cosa capitava alle star. Bello.
Era lo stesso periodo in cui “scopristi” Capossela.
Si presentò proprio quando lavoravo all’Arci. Mai visto prima. Mi colpì il suo modo di parlare d’altri tempi. Mi lasciò la sua cassetta, la ascoltai: era molto Tom Waits, ma era anche molto bravo. Chiamai “Maio” (Claudio Maioli, storico braccio destra di Ligabue, NdA) dicendogli che era fortissimo. Poi però scoprimmo che aveva già un pre-contratto con la CGD.
Tra i primi a credere in te c’è stato Locasciulli. Ti ci scazzasti di brutto.
Non riusciva a farmi emergere. Non sapevo se avrei avuto un futuro sul palco. Le case discografiche mi rimbalzavano. Ero molto frustrato. Un discografico mi disse no perché Balliamo sul mondo “suonava troppo Guccini”.
Che non c’entra nulla con quel brano.
Appunto. Andai alla Virgin il giorno in cui i CCCP, anche loro di Reggio, firmarono: li vidi brindare, mentre io non fui neanche ricevuto. Ricevevo no su no. Un disastro. E qui successe lo scazzo con Locasciulli. Eravamo nella sua Volvo. Gli dico che voglio provare altre strade, lui mi dice che ho firmato un contratto con lui con opzione per altri tre anni. Sbrocco: «Per me, Mimmo, puoi andartene a fare in culo a sangue. Prendi il contratto, lo arrotoli, lui e la sua clausola, e lo infili dove sai». Fui brutale, ma in quel momento dovevo farlo, altrimenti non sarei mai emerso. Poi con Mimmo ci siamo rivisti, gli ho chiesto scusa, è una splendida persona.
Anche Bertoli ti ha aiutato molto, forse più di tutti all’inizio.
Senza dubbio. “Maio” lo cercò sull’elenco telefonico, lui ci rispose e volle riceverci la sera stessa. Pierangelo era così: molto generoso. Poi ascoltò il mio provino e gli fece così schifo che scagliò via la cassetta. Probabilmente il tanto whisky bevuto lo rese così stranamente scortese. Ci rimasi malissimo, ma la mia reazione successiva mi salvò.
Cosa facesti?
Inghiottii la rabbia e qualche vaffanculo, imbracciai la chitarra e gli cantai davanti Figlio d’un cane e Sogni di rock’n’roll. Funzionò. I provini erano veramente brutti: era la seconda metà degli Ottanta, facevo delle nefandezze totali con un basso Eko, non avevo proprio mezzi. Invece quell’esecuzione rabbiosa lo convinse. E incise quei miei brani in due suoi dischi.
Si dice che poi, raggiunto il successo, tu lo abbia un po’ abbandonato.
(pausa) Pierangelo non era uno che telefonava: dovevo farlo io, e non l’ho fatto spesso. Poi però sono andato a trovarlo. Avevo scritto un brano per lui, Le cose cambiano. Lo ascoltò e disse: “Bello. Ora che il brano ce l’ho, spero pure di riuscire a cantarlo”. Avevo “nasato” che era malato, ma non avevo capito che fosse così malato. Se n’è andato poco dopo, e il brano l’ha cantato benissimo suo figlio Alberto. Per lui e la Bruna (moglie di Bertoli, NdA) spero ormai di essere un po’ uno di casa. A Pierangelo ho voluto bene e devo molto.
Sei più vicino a Guccini o a Battisti?
Se il cantautorato di Guccini, De André e Fossati ha a che fare con l’essere intellettuali, allora io non faccio parte di quella categoria. Quando ho capito che potevo lavorare su un palco, ho subito avuto ben chiaro un aspetto: che avrei voluto fare il cantautore, ma sempre con il suono di una band al mio fianco. E se mi chiedi cosa prevale nelle mie canzoni, ti dico che è sempre la componente sentimentale. Anche Buonanotte all’Italia, che può essere vista come canzone politica, è anzitutto un brano sentimentale sul mio rapporto con questo paese.
Nella tua splendida autobiografia, Una storia, racconti la morte di tuo padre. Ti senti ancora in colpa?
Sì. Ho anche scritto una canzone su di lui, L’ultimo sguardo, che non pubblicherò mai. Era malato, e ogni volta cercavo di fargli forza edulcorandogli la gravità della malattia. Poi, l’ultima volta che lo vidi, usciti da una visita in ospedale, mi fissò negli occhi. Capii che sapeva tutto, e che era conscio di come i nostri ultimi quattro mesi fossero stati costruiti sulle bugie. In quello sguardo vidi rimprovero. Mio padre voleva che lo trattassi da uomo e che non gli nascondessi niente. E’ una ferita che non supererò mai.
Sei molto critico con te stesso: “La separazione è una delle cose più difficili che abbia mai dovuto affrontare. Il senso di colpa si è preso tutti i chili che voleva e adesso è lì, come un lottatore di sumo, a ridersela per il nutrimento che gli sto passando mio malgrado”. Non è un po’ troppo?
Credo moltissimo nella famiglia, perché il modello che ho avuto davanti è stato quello di due persone piene di gioia di vivere. Mi hanno sempre aiutato, supportato, protetto. Ormai io e te in questa intervista stiamo entrando in una seduta terapeutica, me ne rendo conto, ma devo dirti che non essere stato all’altezza del modello incarnato dai miei genitori mi ha generato un profondissimo senso di fallimento.
Perché ti piace così tanto stare sul palco?
Per molti motivi, compreso quello di avere un fottuto bisogno di approvazione. Gli idioti del playback fan sono ancora in giro? (sorride) Per me l’amicizia è fondamentale. Da 35 anni abbiamo un casolare in affitto
in compagnia – siamo in 23 – in cui abbiamo ricostruito il bar di un tempo con dentro biliardino, biliardo, sala per le cene, tavoli per le carte. Ci vediamo ogni venerdì.
Ogni venerdì? Da 35 anni?!?
Certo. Non perdo un venerdì neanche a piangere! I miei amici sono ormai quasi tutti pensionati, ci conosciamo da una vita, e io sono sempre quello che più prendono per il culo: “Dai, su, smettila di cantare quelle cagate lì”. Ci divertiamo ancora come fosse la prima volta: io con loro sono solo Luciano, e tutto questo è molto salutare.
Correggio è ancora la tua Macondo.
A 18 anni volevo scappare, perché pensavo che a Correggio non ci fosse un cazzo. In realtà era come nel monologo di Freccia: “Credo che la voglia di scappare da un paese con 20mila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddy Merckx”. E io da qui non voglio scappare. E’ la mia comfort zone. Il mio rifugio naturale.
Subisci due grandi critiche che ti ho fatto anch’io. La prima (brutalizzo): “Liga fa sempre la stessa canzone da 25 anni”.
Magari un po’ di vero c’è. Faccio fatica a giudicare me stesso, ma provo a dirti come la penso io. Non ho mai avuto nessuna pressione, quindi sono sempre stato libero di scrivere quello che volevo e quando lo volevo. Ciò che la maggior parte della gente ascolta sono solo i singoli, e i singoli (scelti dalle case discografiche) possono dare un senso di ripetitività. Tieni poi presente che, volendo sempre essere “un cantautore con la band”, farò quasi sempre brani con 2 chitarre, basso, batteria e tastiera: e anche questo “limita”. Poi: sono sempre io quello che scrive testi, musiche e riff. Dunque ogni volta esercito il mio gusto, e anche questo può dare un senso di ripetitività.
Però?
Però, se provo a chiedermi – e lo faccio – se hanno ed hai ragione, mi metto ad ascoltare i dischi (per intero). Ascolto le produzioni ogni volta diverse. E dico che Miss Mondo non c’entra nulla con Buon compleanno Elvis, Arrivederci Mostro (prodotto da Rustici) non c’entra nulla con Mondovisione (prodotto da Luisi). E via così. Però è la mia opinione, non posso convincere nessuno. Non credo di essermi seduto sugli allori, ma una cosa la so: te l’avevo già detta tanti anni fa, e mi aveva creato un po’ di problemi con Fossati.
Non me la ricordo…
Il punto è questo: io sono ben dentro il mainstream, e quindi è come se avessi dei vincoli dentro di me. Sento che la mia musica ha senso di esistere solo se arriva a tante persone, altrimenti ho fallito in qualcosa. E all’epoca ti tirai fuori Fossati perché lui, che aveva un pubblico meno “ampio”, non aveva secondo me questa nuvola mainstream sopra la testa e quindi poteva essere molto più libero di me.
Questa tua riflessione anticipa la seconda grande critica: “Liga è bravo, ma non morde. Non colpisce. Non rischia”.
Credo che, soprattutto in un momento come questo, la canzone debba fare compagnia. Stiamo vivendo nel peggiore decennio che io ricordi. Il presente genera paura, che a sua volta genera isolamento. Ecco perché nel disco Dedicato a noi (l’ultimo album di Ligabue, ritenuto a ragione dalla critica la sua opera più ispirata degli ultimi anni, Nda) ho risfoderato il mio bisogno di appartenenza e di “noi”. In un tempo simile, cosa può fare una canzone? Tenere compagnia e dare conforto, e sono proprio queste le cose che io so di poter fare.
Una volta per tutte: che rapporto hai con Vasco?
Con Vasco è successo semplicemente che, a un certo punto, ci hanno messo gli uni contro gli altri. Io non ho mai avuto problemi con lui, ma la cosa ha preso una deriva brutta. C’erano proprio le magliette dei fan di Vasco con scritto “Io odio Ligabue”, e a quel punto il rapporto tra noi è diventato difficile. So che lui ha dichiarato recentemente che sono tutte menzogne giornalistiche: forse anche sì, non lo so, però questa gara assurda tra me e lui mi ha fatto male. L’unica gara che faccio è con me stesso: non perché esista solo io o perché sia il più bravo, ma perché ho delle questioni da risolvere con me. Non certo con Vasco. Questa cosa della “sfida” con Vasco mi ha sempre messo a disagio.
Perché ce l’hai tanto con i Pink Floyd? Quando suonarono a Modena nel 1994 scrivesti su L’Unità che erano bravi ma freddi, e in Radiofreccia metti il vinile di The Dark Side Of The Moon in mano al più stronzo del film.
No no, a me i Pink Floyd piacciono tantissimo! Qui ti sbagli. Credimi. Sai che neanche me la ricordo quella scena di Radiofreccia? Realizzare quel film fu durissima: dovevo convincere della mia autorevolezza (che non avevo) una troupe scafata di romani che non aveva alcuna fiducia in me: “Eccolo, è arrivato il regista che farà due film in un colpo solo. Il primo e l’ultimo”. Il clima era quello lì. E’ stato il mio massimo sforzo mentale.
Addirittura?
Nel concerto non pensi: l’emozione fluisce da sola. Invece in un film l’emozione la devi proprio progettare, ed è l’esatto opposto di come viva io. Se guardi la mia foto un mese prima e un mese dopo le riprese, mi trovi invecchiatissimo. I primi capelli bianchi sono arrivati lì.
Non li tingi più.
Da una decina d’anni. “Colpa” di Fazio. Io non vado quasi mai in tivù, a meno che non abbia delle cose a cui tengo da promuovere. In televisione non sono a mio agio. Però, ogni volta che andavo da Fazio, poi mi dicevano che i capelli sembravano arancioni. Così dopo un po’ mi sono rotto i coglioni, ho smesso di tingerli e all’inizio li ho pure tagliati. Per due settimane mia moglie ha pensato di avere un estraneo in casa.
Da zero a dieci, il secondo film, ebbe meno successo.
Per me è un buon film, ma è anche pieno di morte. E mi ricorda la scomparsa di mio padre. Non lo guardo da anni e non lo guarderò mai più.
Che ricordo hai della crisi di Sopravvissuti e sopravviventi?
Avevo la sensazione che fosse già finito tutto. Quel disco spiazzò. La prima data del tour era strapiena, sei mesi dopo – mi pare a Palinuro – c’erano tipo cento persone. Poi arrivarono le tensioni, i problemi con la mia band (i Clandestino) e il mio manager Angelo Carrara (a cui devo quasi tutto). Lì mi dissi: “E’ finita”.
Cosa ti stravolse di Jungleland, l’ultima traccia di Born to Run di Springsteen?
Avevo 15 anni. Stavo ascoltando Punto Radio, la radio dove militava anche Vasco Rossi, che faceva un programma di musica soul. La più bella radio libera che abbia mai sentito. A un certo punto arriva questo brano del “nuovo Bob Dylan”. Prima il conduttore legge il testo, poi arriva la canzone. Una folgorazione. C’era tutto: il bisogno di esprimere tutto quello che hai dentro e l’energia di una band.
Quali sono i cantanti a cui sei più vicino?
Sono tanti. U2 e Springsteen, per esempio. In Italia, come amicizia, sono legatissimo a Francesco (Guccini, NdA). Musicalmente, e tu lo sai, sono anzitutto un battistiano convinto.
Tutto? Anche con Panella?
No, con Panella no. Non nego che ci siano bei testi e anche buone musiche, ma quel periodo l’ho sofferto. Avevo veramente la sensazione che lui volesse cancellare il periodo con Mogol e annullarne l’emozione. Sembrava che cantasse leggendo l’elenco telefonico: non lo sentivo abitare le parole. Lo avvertivo “disinteressato” rispetto a ciò che cantava.
Un altro nome?
Lucio Dalla. Lo amo moltissimo. Come vedi, sto citando artisti popolari e sentimentali, che avevano al centro di tutto grandi musiche.
Hai perso tre figli.
Gli aborti durante i primi tre mesi fanno male, ma li metti in qualche modo tristemente in conto: a me è successo due volte con la Dona (la prima moglie, NdA). Perdere un figlio al sesto mese di gravidanza, quando a casa era tutto pronto per accoglierlo e non c’era alcuna avvisaglia di una tragedia simile, è qualcosa che non accetti mai. Mi è accaduto con Barbara (la seconda moglie, NdA). E’ un lutto a tutti gli effetti e comporta un cambiamento in tutta la famiglia. La madre sente il fallimento del proprio corpo. Ha una sensazione di profondo disagio rispetto anche alla sua “funzione riproduttiva”, e questo produce un disastro enorme. Sono dovuto stare molto vicino a mia moglie per parecchio tempo.
Il dolore oggi è diminuito?
Un po’ sì, il tempo aiuta, ma alle sliding doors ci pensi sempre: quanti anni avrebbe oggi se fosse vivo? Come sarei oggi con lui al mio fianco? Quel figlio, Leon, sembrava una benedizione arrivata in un momento bellissimo della mia e nostra vita. Era tutto perfetto.
Vai mai a trovarlo?
Sì. Riposa in un cimitero con un angolo chiamato “degli angeli”. Tutti bambini scomparsi prima dei tre anni d’età. Lui ha la stessa data di nascita e di morte. Ogni tanto passo a salutarlo. Sempre meno spesso, ma sì, ci vado.
I mostri a cui hai detto “arrivederci” ti danno tregua?
Sono in un periodo di buona. Non sono “immersissimo” nel mondo. Non guardo i social, ma ho comunque un quadro della situazione sufficiente per me. Sto bene e mi sento abbastanza risolto, per quanto ovviamente possa essere risolto uno come me.
La critica più ingiusta che possono farti?
Ho imparato che le canzoni fanno il cazzo che vogliono loro, e noi non saremo mai capaci di indirizzarle. Truffaut diceva che le canzoni che più lo avevano emozionato erano tutte stupide, quindi qualsiasi critica artistica ci sta. Siamo nel regno della soggettività. La cosa che più mi ferisce è quando si mette in discussione la mia buona fede. Quello no, quello è scorretto.
Fino a quando starai sul palco?
A 30 anni avevo dichiarato: “Non mi ci vedo a 50 a fare Balliamo sul mondo sul palco”. Ora che ne ho 64 non vedo l’ora di farla. Non lo so. Dipende da una serie di fattori, compreso il pudore. Sono contento di vedere a 80 anni Mick Jagger sculettare ancora un po’, ma lui è lui. Da un lato non vorrei smettere mai, perché vivo di quello e mi ha sempre portato avanti quello. Dopo Buon compleanno Elvis e Radiofreccia,
volevo fermarmi.
Perché?
Perché c’erano degli aspetti della popolarità che mi hanno messo nella condizione di non poter più avere una relazione normale con il mondo. Io so che, ogni volta che qualcuno parla con me, parla con l’idea che si è fatto di me. Ogni volta devo sfondare una parete, e non sempre ne ho voglia. Se non ho mollato, è perché non sarei capace a vivere senza fare concerti. Quindi, ecco: spero di smettere il più tardi possibile.
Che definizione daresti di te stesso?
Ti confesso che ho sempre sorriso per la difficoltà che ho dato a tutti nell’etichettarmi. Si fatica a definirmi cantautore. Si fatica a definirmi rocker, perché non aderisco al galateo dell’artista maledetto. Si fatica a definirmi regista, si fatica a definirmi scrittore… Facciamo così: chiamatemi Luciano, e la finiamo lì.
(Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2024)