Non ci resta che opporci a parole

VECCHIONI E IL SUO LIBRO RESISTENTE

Un libro splendido. Una carriera preziosa. Un uomo che sa raccontare – e raccontarsi – come pochi altri: Roberto Vecchioni.

Tra il silenzio e il tuono: è il suo nuovo libro.

Un “romanzo epistolare strabico”. I punti di riferimento sono sempre i soliti: Marco Aurelio, Sant’Agostino, Pascal. Metto a confronto la mia vita reale e la mia coscienza. Da una parte io, dall’altra un nonno che non risponde mai.

C’è anche la politica.

La stanchezza della politica: stiamo andando male, e andremo sempre peggio. Bisogna creare fortini continui di speranza e democrazia, perché il mondo non sarà mai felice e mai in pace. Una constatazione molto realista e quindi molto dolorosa, per uno iper-idealista come me.

Quel bisogno di “creare fortini” è sempre meno forte.

L’italiano medio è stanco e rassegnato. C’è un precipitare nauseabondo della cultura. Impera il menefreghismo, e i ragazzi in questa situazione sono sballottati. E’ un momento molto brutto. In Italia si è sempre reagito, soprattutto in momenti particolari come il Risorgimento o i Settanta, al potere. Oggi molto meno.

E il potere, cantava De André, non può essere buono.

Era il grande tema di Fabrizio: il potere non è questa o quella persona, ma un’entità – per lui sempre negativa – che esiste sempre: sta sopra e copre il mondo. Non ci resta che opporci a parole. Io li vedo i suoi sforzi quando va in tivù e la convinzione con cui argomenta. E devo dirle una cosa.

Quale?

Piango per lei, perché purtroppo la gente non si convince con i ragionamenti esatti: si convince con le fanfaluche. E’ in atto un degenerare del genere umano, e soprattutto del genere italiano.

Il cardine del libro sembra essere l’autoaccusa.

Il non essere stato sempre vicino ai miei figli, l’aver fatto soffrire mia moglie. E poi questo mio essere sdoppiato: sotto il palco un uomo normale, frittatine e pantofole; sopra il palco, non dico un Dio ma qualcuno che crede di poter fare tutto. E non ho tutto questo grande amore per quell’uomo convinto di essere chissà chi.

Racconta anche il successo destabilizzante di Samarcanda.

Furono tre mesi brutti. Non c’ero abituato, ero una persona molto timida. Non potevo più uscire di casa, e io sono innamorato di una privacy quasi brutale. Mi sentii travolto, ma è passata. Ora più c’è gente c’è e meglio è.

Nel libro ammette di avere sofferto, fino a Sanremo, perché percepito come troppo criptico.

Ho sempre dato più peso al “quale” che al “quanto”, ma tutti pensano al “quanto”. Proprio tutti: anche Battiato, anche De André. Il mio “quale” era molto criptico: ho scritto 300 canzoni, ma la gente ne conosce 4 o 5. Anche come musicista non son mai stato cagato granché. Mi feriva un po’ questa superficialità del pubblico. Ora l’ho superata: la scorsa settimana, in treno, tutta la carrozza mi ha chiesto la foto. E’ una cosa bella, che immagino dipenda anche dalla mia presenza nel programma di Gramellini.

Dove ha pianto – con raro candore – guardando le immagini dei ragazzi manganellati a Pisa.

A volte la commozione arriva anche durante i concerti, ma lì so gestirla e quasi spettacolarizzarla. Coi ragazzi manganellati no: mi è venuto proprio uno sturbo dentro, mi sembrava fantascienza.

Il governo Meloni è quello che le fa più paura?

Paura, no. Non ne avevo neanche della Dc. Ero comunista e resto berlingueriano: passato, presente e futuro per me saranno sempre Enrico. Ero un ragazzo fiducioso, che pensava: “Prima o poi li battiamo”. Più che paura, il governo Meloni mi crea sconcerto. Non è l’Italia a cui penso io: è un’Italia ristretta, divisa, ingiusta. Spero finisca presto: mi va bene un governo di centro, anche con Forza Italia. Ma non tollero proprio questo spadroneggiare. Il governo Meloni prospera perché, in Italia, più dai prova di forza e di demenza e più il pubblico ti viene dietro, perché anche lui – non tutto, ma molto – è forte e demente.

Le va bene il centro, ma immagino che la sua prospettiva ideale sia il “campo largo” sardo.

Certo, ma bisogna intendersi: di quale “campo largo” parliamo? Essere conservatori è molto facile: non ci sono deviazioni, c’è una via sola. Invece essere laburisti è difficilissimo. Un congresso di sinistra è come una riunione di condominio: più idee, ma anche più confusione. Bisogna che qualcuno si smussi. Voglio bene a Fratoianni e alla “sinistra sinistra”, ma mi sembrano tanto primo Novecento. Bisogna battersi con altre armi: questo maledetto fiume sta andando avanti, e ormai possiamo mettere al massimo qualche argine.

Il suo amico Guccini dice che parlare di “cultura di destra” è un ossimoro.

(sorride) La parola “cultura” è in sé vasta. La cultura di destra c’è, ma è molto limitativa e decisa. Finché immagini un mondo da grande fratello dove domina qualcuno dall’alto, allora la cultura di destra va bene. Ma è una cultura astratta, limitata, “fredda”. La cultura concreta dell’uomo deve essere di sinistra. La cultura vera è di sinistra, perché è apertura e non chiusura.

Il libro le permette di essere pienamente intellettuale rispetto alla canzone?

Non direi. Io vivo di parole, quindi sono fondamentalmente un cantautore: meglio ancora, un cantattore. Il brivido che ti dà la canzone, che è poi la capacità in quattro minuti di sintetizzare tutto, resta impagabile.

Nel suo pantheon, lei ha sempre messo De André, Gaber e Jannacci (e Battisti come musicista). Vecchioni, in questo olimpo, dove sta?

Di lato. Forse, rispetto a loro, fatico di più a trovare nuovi adepti. A Fabrizio, che è un Nobel della Letteratura non avuto e fa storia a sé, non somiglio in nulla. Lui aveva una cultura moderna e soprattutto medievale: io ho una cultura classica. Francesco (Guccini, NdA) è noto per La locomotiva, ma è un decadente. E quando parla di politica, è un ragazzo di 83 anni che va giù con delle martellate tremende. Jannacci era meravigliosamente imprevedibile, Gaber “politicamente” (nella sua accezione più nobile) geniale e per questo attaccato da tutti. Forse assomiglio un po’ a Lucio Dalla, che era il più aperto al sentimento e alle ferite del cuore, il più patente e il più autoreferente. Sì, sto di lato: che non vuol dire meglio o peggio, vuol dire diverso.

Come si vive “tra un addio che viene/ e un altro addio che va/ rumorando parole nell’attesa”?

Sono molto malinconico, anche nelle mie canzoni c’è sempre qualcosa che ho perduto. Anche la vita è un ossimoro: “dentro il filo spinato dell’amore, sanguinosa dolcezza”. Vivo tra il silenzio del pensiero e il tuono, che è poi il rumore della vita. Dovremmo inseguire il silenzio, più che il rumore. La malinconia c’è concessa, la nostalgia molto meno. Il passato è bellissimo, ma non lo devi rimpiangere. Il passato è l’unica realtà, il presente è una somma di passati.

Sempre?

Sempre. Il passato per me non è mai rimpianto, ma occasione. Mia madre è con me, mio figlio morto è con me. Lo so, li sento. Per una madre non può essere così: mia moglie piange tutte le sere. Io tengo stretto il ricordo, come se fosse una proiezione viva di quello che è stato. Ho questo vantaggio.