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Intervista – Vininaturali.it

mercoledì, Marzo 2nd, 2011

Domani, 3 marzo, sarò a La Spezia (Porto Lotti, ore 21) per una presentazione. Giovedì prossimo sarò a Feltre (Belluno) e il giorno dopo a Bassano del Grappa.
A Feltre ci saranno anche Angiolino Maule e Franco Terpin. Per l’occasione ho ricevuto una intervista da Vininaturali.it, il portale curato da Francesco Maule. La pubblico anche qui.

(Vininaturali.it) Per me IL libro sul vino è il sempre attuale “Vino al vino” di Mario Soldati. Dopo di lui Luigi Veronelli ha creato il giornalismo enoico, ma solo lui e Sandro Sangiorgi si sono un po’ discostati dalla media, intenta a far più che altro marketing (anche se a mio avviso non hanno creato una scuola o una corrente di pensiero forte).
Non vedevo l’ora che un non addetto riuscisse a parlare senza peli sulla lingua di ciò a cui lui piace in maniera sobria e divertente, ma allo stesso tempo pregna di significati. Come spesso accade, però, chi dice la verità rischia di esser additato come cialtrone, millantatore o imbroglione.
Così come è capitato a due non specialisti che han detto la verità nuda e cruda: Report con la puntata “In Vino Veritas” e Jonathan Nossiter con “Mondovino”. Per me altri due capisaldi.
1.    Tu hai avuto di questi problemi? Che tipo di critiche hai ricevuto e come le hai prese?
“Ho ricevuto molti più elogi che critiche. Certo, c’è stato chi si è sentito franare la terra sotto i piedi e, di conseguenza, mi ha attaccato sotto la cintura. Tutto altamente prevedibile: c’è sempre chi difende il proprio orticello e scomunica il novizio. Ancor più se il novizio ha cose da dire, sa dirle, ha una sua notorietà e non si pubblica i libri da solo. I miei volumi sul vino sono usciti per Mondadori. Hanno avuto successo (Elogio dell’invecchiamento è stato appena ristampato una terza volta). Sono scritti (spero) bene, in maniera nuova e originale. Contengono prese di posizione schiette e controcorrente. Non potevano passare inosservati. Soprattutto il secondo, Il vino degli altri. Al pubblico sono piaciuti, ad alcuni colleghi no. Non potendo attaccare forma e contenuto, qualche residuato bellico ha provato a sostenere che mi ero inventato alcune interviste. Salvo poi ricevere smentite plateali, coprendosi di ridicolo.
Il mio intento era scrivere libri piacevoli, divertenti, liberi, passionali e utili. Raccontando storie meritevoli di essere eternate narrativamente. A giudicare dal responso dei lettori, e dagli incontri che faccio in giro per l’Italia, credo di esserci riuscito. La rabbia del baronato polveroso è irrilevante: gente sconfitta dalla storia, senza coraggio, connivente e misera. Io mi diverto quando si arrabbiano, vuol dire che la strada è quella giusta. Il rock’n’roll e la beat generation sono deflagrati comunque, nonostante le censure e le difese arroccate dei vecchi tromboni stonati. Ormai è più rilevante la recensione di un blog che il solito Tre Bicchieri scontatissimo. Se ne facciano una ragione: il tempo non è più dalla loro parte, per parafrasare gli Stones.
Mi si dice: “Io capisco di vino più di te”. Può essere: ma se non sai comunicare il tuo sapere, peraltro interessato e poco sganciato da interessi mercantili, sei un giornalista che ha fallito. Ed io, i falliti, li ho sempre indisposti. Con mio sommo gaudio. Non sono un espertone: sono un innamorato del vino bene informato. Detesto essere barboso o cattedratico. Dei molti ambiti di cui scrivo, quello del vino è il mondo che più prendo alla leggera. Rispettosamente alla leggera, sia chiaro: il vino è festa, è convivialità, è piacere. Basta con questi sciroccati che straparlano di sentori olfattivi e usano parole paradossali.
Agli addetti ai lavori, le polemiche attorno al Vino degli altri sono sembrate guerre puniche, proprio perché abituati a un linguaggio autoreferenziale e ad una calma piattissima. Per me erano e restano facezie. Se qualche produttore si è pentito di avere svelato a un giornalista verità scomode, è un problema suo: problema di coerenza e di coraggio. La norma è riportare fedelmente le interviste, non censurarle o edulcorarle. Mica sono andato dentro le cantine minacciando i produttori col kalashinkov: sono loro che si sono raccontati. Liberamente. Ed io ho riportato, fedelmente, quanto ho ascoltato. Questa storia del dire una cosa e scriverne un’altra non è giornalismo rispettoso: è paraculaggine interessata.
Poi, che devo dirti: io non sarò mai un ultrà della specializzazione. Gli specialisti monomaniaci sono quasi tutti dei personaggi di una noia catacombale. A me il vino piace, ma se dovessi scrivere sempre e solo di quello mi darei fuoco. Sai che palle. Diversificarsi è fondamentale, aiuta a rimanere vivi (e a scrivere libri diversi). Invece gli enocentrici stanno lì, immobili. Diffidano dell’eclettico. Se la cantano e se la suonano. Si addormentano e fanno addormentare. Se proprio voglio dormire, mi guardo Seppi o ascolto un disco di Vecchioni.
Tu prima facevi i nomi di Soldati e Nossiter. Appunto: uomini che non parla(va)no solo di vino ma anche di vino: differenza decisiva. Se ho dato uno scossa alla calma piatta di Enolandia, ne sono felice”.
2.    Perchè i giornalisti italiani (del vino e non) non hanno le palle?
“E’ una generalizzazione sbagliata, come tutte le generalizzazioni. Esistono giornalisti italiani liberi e giornalisti che non lo sono. Più in generale, esistono persone libere e persone non libere. Le secondo sono maggioritarie, non solo nel giornalismo. Per essere libero devi avere coraggio e accettare di schierarti, metterti in gioco, rischiare. Io non saprei fare diversamente e i pavidi sono la categoria che meno sento vicina. Preferisco un antipatico coraggioso a un vigliacco furbino. Il mondo del vino è compromesso ed equivoco, ma ha non poche isole salve. Sia come produttori, sia come giornalisti (blogger compresi, alcuni davvero bravi)”.
3.    Come vedi il mondo dei naturalisti? Hanno modo di uscire dalla solita cerchia di amatori o rimarranno relegati nel limbo tra “contadini” e “mistici”?
“Dipende da loro. Rispetto a dieci anni fa sono molto più noti, e già ci sono i cultori della nicchia che si lamentano del troppo successo, un po’ come capita al musicista clandestino che entra in classifica. Sono fiero di essere stato il primo, tramite una casa editrice mainstream e non attraverso le solite pubblicazioni criptiche per iniziati, a raccontare al pubblico che esiste un vino diverso. Chiamalo vero, chiamalo naturale: o più semplicemente, sano. E’ un tipo di vino che rimarrà minoritario, proprio perché fatto – spesso, non sempre – da persone libere e coraggiose. Anch’esse minoritarie. Ma può crescere ulteriormente, a patto che non smarrisca la retta via e che la naturalità non sia solo una moda effimera (come sta accadendo per i bianchi macerativi: mi piacciono, ma non è che adesso tutti devono fare gli orange wines).
Trovo poi tafazziana questa iperframmentazione tra i naturalisti: già sono pochi, in più si sono scissi in correnti, partitini e sottogruppi. Neanche la sinistra extraparlamentare una roba così. Occorre poi che il vino naturale la smetta di giustificare i difetti con la scusa che “è sano”. Se un vino puzza, è inaccettabile. Qualcuno obietterà: sì, ma almeno non fa male. E ci mancherebbe solo che facesse male. Il vino che puzza se lo beve il produttore o la produttrice, oltretutto a quei prezzi esosi lì. A me Emidio Pepe piace come azienda, ma alcuni suoi Montepulciano d’Abruzzo parevano solfatare (a differenza dei Trebbiano d’Abruzzo, puntualmente sontuosi). Idem per la stimabile Podere Le Boncie: Giovanna Morganti e i suoi fans possono dire quanto vogliono che il Chianti Classico Le Trame “deve” avere quella puzzetta, aggiungendo magari che il vero Sangiovese è sempre “terragno” (termine imbarazzante, peraltro), ma non pretendano che io sia così allocco da crederci. Il vino deve essere sano e buono, non soltanto sano o soltanto buono. Non basta essere belle persone per fare bei vini (anche se aiuta). L’enologia naturale deve emanciparsi dall’immagine di prodotto bizzarro e sfigato. Per farlo, sarebbe auspicabile che la smettesse pure di farsi raccontare da giornalisti – non di rado – bizzarri e sfigati. Oltre che – talora – sgradevolissimi”.
4.    Cosa ne pensi di quelle aziende che per puro marketing iniziano a tenere una parte dell’azienda in biologico o in biodinamico?
“Mah. Se quella parte di azienda è veramente biologica o biodinamica, o comunque rispettosa della natura, è buona cosa. Un passo in avanti. Poi però c’è l’aspetto della fascinazione per il vigneron, per la sfida, per la somiglianza tra vino e viticoltore. Qualcosa a cui guardo molto e che cerco di raccontare nei libri e nel blog. E’ una tendenza che numericamente fa bene, ma che personalmente non sento vicina alle mie corde. A me piace l’eretico, l’eremita, l’iconoclasta. Il sognatore. Il romantico. Non il produttore seriale”.
5.    Come mai un vino naturale/artigiano, se ben fatto, è da preferirsi ad uno convenzionale/industriale?
“Perché, se ben fatto, ha più cuore. E’ più sano. E’ più personale. Ed ha tante cose da raccontare”.