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Tre vini (si apra il dibattito)

lunedì, Novembre 1st, 2010

Sono qua che preparo il pane in casa e, mentre la Creatura cuoce, satura e satolla di buon gusto, catalogo gli ultimi tre vini provati.
Lungarotti Brut Metodo Classico Millesimato. Bevuto all’Acquario, slowfood a Castiglione del Lago. Buon posto, con la carpa in porchetta che signoreggia e soverchia misuratamente. Prezzo 22 euro (del Brut, non della carpa). Lungarotti – che nella prima edizione del Vino degli altri è diventata Longarotti: fischi per Scanzi – è una grande azienda umbra. La sede è a Torgiano. Prima fautori di vini eleganti, poi moderni, ora più o meno a metà strada. L’Umbria non è esattamente terra per spumanti e lo sapevo. Ciò nonostante, l’ho provato. Chardonnay e Pinot Nero, equamente divisi. Per capirsi: è un Brut senza infamia e senza lode, bollicine deboli, profumi timidi, gradevolezza media. Come un Franciacorta base. Ben fatto, non a buon prezzo. Non è cattivo, ma c’è molto di meglio.
Outis 2003 Vini Biondi. Un Etna Rosso provato alla Dogana del Buon Gusto di Milano, in compagnia del più bel 39 che abbia mai anche solo osato sognare. Sarà stata la compagnia, sarà la volpe quando viene l’inverno (cit), ma mi è parso un Nerello & Nerello sontuoso. Elegante, nonostante l’annata caldissima. Fresco, buona mineralità, gran persistenza. Progressione sicura. Biondi, dietro cui si è celato per anni il lavoro di Salvo Foti, è un’azienda dai numeri importanti nel versante orientale del vulcano siciliano. Un versante, in teoria, più adatto ai bianchi che ai rossi.  L’Outis è un gioiellino da 32 euro al ristorante (molto carino, peraltro). Dicono che la 2007 – la prima senza Foti, se non ho capito male – sia strepitosa. La degusterò quanto prima.
Trebbiano d’Abruzzo 2006 Talamonti. Bevuto in uno slowfood a Pianoro, poco fuori Bologna. Osteria al numero 7. Ero solo e l’ho sdraiata quasi del tutto (vergogna). Il ristorante è notevole, i passatelli asciutti con crema di parmigiano hanno raggiunto un’epifania di livello significativo. Il Talamonti, con base nell’enclave Loreto Aprutino, è meno facile da recensire e tradisce una carta dei vini tendente al moderno (però puoi portarti il vino da casa, oppure sfruttare la wine bag se non finisci la bottiglia). E’ un bianco decisamente tecnologico, anche all’esame visivo: giallo dorato, molto dorato, troppo dorato. Prezzo sui 18 euro al ristorante, che ci può anche stare. Al gusto – come al naso – tradisce un’overdose di legno, effetto chewing-gum e vaniglia sparsa come se piovesse sabbia del deserto (cit). Nulla a che vedere con l’eresia geniale di Valentini (se solo Francesco sapesse anche leggere, oltre a fare olio e vino, sarebbe praticamente perfetto). Questo è un bianco hic et nunc, da bere subito. A distanza di quattro anni dalla vendemmia, il rovere francese non era stato affatto smaltito. Va però sottolineato come la vena acida ci fosse, da qui una bevibilità sufficiente (altrimenti mi fermavo subito). Considerato il potenziale del vitigno, mi permetto di dire che tutto quel rovere sia uno scempio, paragonabile al parmigiano sugli spaghetti alle vongole.