Carat 2006 – Bressan

Una delle gemme del Friuli“. Così è spesso recensito il Carat, uvaggio bianco dell’azienda Bressan a Farra D’Isonzo.
L’ho bevuto sabato scorso, con il più bel 39 dell’universo.
Ero da Arnaldo Rossi, quindi alla ormai mitica Taverna Pane e Vino di Cortona. Ho mangiato in piazza, gremita. Sarà anche cartolinesca, ma Cortona – quando vuole – è bella come Michelle Pfeiffer ne L’età dell’innocenza (e tu, se hai fortuna, sei un po’ Daniel Day-Lewis).
Ma sto divagando. E un motivo c’è. Il Carat – annata 2006 – ha belle recensioni bipartisan (da vinoveristi e quasi-modernisti). Anche ad Arnaldo piace molto. Il prezzo è onesto, 18 in enoteca, sui 22-25 al ristorante.
In sintesi: mi è piaciuto, non mi ha fatto impazzire.
Prima di tutto non credo di essere più in grado di apprezzare sino in fondo i blend. Lo so, è un’affermazione sborona, ma ormai per me monovitigno o muerte (cioè astemia). Il blend, per quanto buono, mi pare sempre un vino costruito. Mai spontaneo.
Il Carat è un uvaggio di Tocai Friulano, Malvasia e Ribolla Gialla. Cinquemilacinquecento bottiglie prodotte. Un bianco macerato, anche se non lo definirei orange wine. La macerazione è leggera e si ferma ai 28 giorni. La percepisci, comunque: nel colore (un giallo paglierino che cinque anni dopo la vendemmia era più che altro dorato), nei profumi (con un che di leggermente ossidativo: e per me non è un pregio, che siano Jura o no) e nella complessità gustativa.
Bel vino, guai se mi fraintendete e andate a scrivere “Scanzi stronca il Carat“, come ormai si usa fare se osi sollevare qualche educata perplessità. Ha buon allungo, discreta beva, complessità e carattere sufficientemente delineato. Però qualcosa non mi ha preso. Non fino in fondo. Forse il mandorlato (quasi eccessivo) al naso, forse un’acidità leggermente aggressiva (e tendente all’amaricante). Mi è mancato un po’ di equilibrio e di finezza. E sarei tentato di dire che la barrique – nonostante anni, vinificazione e tipologia – tenda ancora creare una discrasia (eh?) tra acidità brutale e (improvvisa) morbidezza che qua e là ti solletica le papille gustative.
Fosse un voto, sarebbe un 6+. Fosse un vino, sarebbe discreto. Non indimenticabile.

P.S. Due anni dopo avere scritto questo post, ho scoperto che tal Fulvio Bressan (da me fortunatamente mai incontrato) è questo intellettuale qua. Mi guarderò bene dal ribere un suo vino.

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12 Responses to “Carat 2006 – Bressan”

  1. Stefano Menti ha detto:

    Ho bevuto per la prima volta il Carat a Genova in compagnia del Signor Bressan. Proprio l’annata 2006.

    A me è piaciuto molto, tenendo conto che era appena aperto ed eravamo in piedi e, che anche a me i blend mi mettono un certo pregiudizio.

    Dopo pochi mesi mi sono state regalate tre bottiglie: Nanni Copè rosso 2008 buono, cremant d’alsace Frick buonissimo e Carat 2004.

    Col ricordo positivo dell’assaggio dell’annata 2006, ho aperto per primo il Carat 2004 che ho bevuto in un paio di giorni. Non mi ha entusiasmato però come l’annata 2006 e, neanche mia moglie è stata molto colpita.

    Personalmente da riprovare sia le stesse annate che altre.

  2. Andrea Scanzi ha detto:

    E’ senz’altro da provare, Stefano. Grazie del tuo contributo. 😉

  3. benux ha detto:

    Mai provato questo vino ma appoggio la tua visione contro i blend.

  4. Claudio ha detto:

    Si però c’è blend e blend…certi Chateauneuf de Pape (senza nemmeno arrivare a quelli da cifre iperboliche) sono indimenticabili.

  5. Armando Trecaffé ha detto:

    Mah…non so..anke a M i blend paiono vini confusi e poco didattici, tuttavia in passato in contadini facevano s o l o blend, il monovitigno praticamente era una rarità…e a me i blend benfatti piacciono ancora…. da rifletterci…

  6. Luca Miraglia ha detto:

    Personalmente trovo che Bressan, vignaiolo simpaticissimo conosciuto nel 2009 in occasione della prima edizione di “Parlano i vignaioli” (e lui ne aveva di cose da dire, facendoci assaggiare tutta la gamma dei suoi vini!), abbia maggiore “tocco” ed ispirazione nei rossi (strepitoso il Pinot Nero) rispetto ai bianchi … ma è opinione del tutto soggettiva.
    In ogni caso, il suo approccio mentale tende senza dubbi verso l’universo “naturale”, donde alcuni segni distintivi, nelle sue creature, che possono non piacere.

  7. Stefano B. ha detto:

    Solo io la sfiga di passare a Cortona di lunedì e trovare un fruttivendolo al posto di “Pane e Vino”, mannaggia!

  8. marco ha detto:

    Mi associo, tante volte il blend serve a coprire qualcosa che manca qui là; in questo caso forse no, ma preferisco sempre i monovitigni, anche sullo champagne, se possibile, che nasce come vino da uvaggio.

  9. Diego ha detto:

    Pochi giorni fa sono andato a conoscere lo scoppiettante Bressan a Farra di Isonzo. Un piccolo resoconto e la seguente discussione la trovate in questo nuovo forum del vino: http://winetepee.freeforums.org/

    Bressan, probabilmente influenzato da questa recensione (mia supposizione), mi ha detto che il Carat è fatto con i 3 vitigni come da tradizione locale. Mi ha spiegato che il Tocai Friulano non ha abbastanza acidità se vinificato da solo. Per questo i vecchi contadini friulani piantavano 8 filari di tocai + 1 di ribolla gialla + 1 di malvasia. Bressan ha solo ripresa la “ricetta”.

    Se il blend è di “tradizione” personalmente non sono pregiudizialmente contro…

    P.S.: in azienda il Carat costa 20 €, mi sembra difficile trovarlo in enoteca a 18 €.

  10. luigi fracchia ha detto:

    Bisogna ricordare che storicamente gli agricoltori non affidavano mai la loro vita ad una sola cultivar (anche le semine del grano erano composte da una miscela di varietà e mai erano in purezza).
    I vigneti monovitigno non esistevano (sono diventati più presenti nel post fillossera) per svariati motivi tra cui la possibilità di poratre a casa qualcosa indipendentemente dalle condizioni climatiche, per cui si mischiavano varietà tintorie, bianchi, aromatici, varietà precoci e tardive.
    I vigneti di montagna di Countandin sono composti da una decina di cultivar, alcune ancestrali, molte a piede franco e rientrano tutte nel vino.
    La semplificazione e la standardizzazione del gusto e la gestione industriale del vigneto hanno portato all’abbandono di queste pratiche agronomiche.
    Fino 30 anni fà non esisteva un Barolo senza un saldo anche consistente di Barbera.
    O un Pachino senza del Frappato.
    Meditiamo.
    Comunque sia anche a me il Carat ha lasciato perplesso, ma non certo perchè è un blend.
    L’amarostico e l’ammandorlato che segnala Andrea è sicuramente figlio della Malvasia e anche a me ha lasciato perplesso.

  11. daniel ha detto:

    Escludi carne, rossi, bianchi non monovitigno, vini non naturali… alla fine che resta?

  12. Andrea Scanzi ha detto:

    Un miliardo di cose.

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