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L’importanza del vitigno (e del gusto)

martedì, Giugno 19th, 2012

Qualche settimana fa ho recensito un Chianti. Era quello di Giovanna Morganti, Le Trame. Come tutti i suoi vini, mi è piaciuto ma non mi ha fatto impazzire.
Per correttezza, ho aggiunto nel post – e aggiungo adesso – che parte del poco entusiasmo dipende da un mio gusto soggettivo. Un fattore che, nel mondo del vino, rende tutto – tutto – ancora più soggettivo di qualsiasi altro ambito. Se io dico: “Nebraska è un capolavoro“, so di avere “ragione”. Ma so anche che, se qualcuno mi risponde “che due palle quel disco“, nulla potrò replicare per convincerlo del contrario (anche se di sicuro non lo inviterò mai a cena).
Nello specifico Morganti-Le Trame, la mia “tara soggettiva” è legata all’amore non eccessivo che ho per Sangiovese e Chianti. Grandissimo vitigno e gran bel vino (peraltro fatto non solo da Sangiovese), ma non il mio preferito. Il campanilismo mi ha intaccato poco e, se posso scegliere, opto – al di là di difetti tecnici non voluti: quelli sono imperdonabili – per il rosso prima bevibile e poi ambizioso. Quindi, per paradosso, oggi berrei più volentieri un Chianti Colli Aretini (Paterna o Mannucci Droandi, per dire) di un Chianti Classico. Ben sapendo che il secondo è “migliore” – ma se proprio devo prenderlo, esco dal disciplinare e vado su Pergole Torte.
Sto però divagando. Il punto è: quando noi recensiamo un vino, per quanto ci si sforzi di essere oggettivi, si è sempre condizionati dal nostro gusto personale. Capita nelle guide (che non sono ahimè condizionate unicamente dal gusto personale). Capita nei libri. Capita nei blog.
Ci sono dei vini che, per quanto possano piacermi, non mi fanno mai impazzire sino in fondo. Tra i bianchi: lo Chardonnay, il Gewurztraminer, il Muller Thurgau, spesso il Sauvignon Blanc. Tra i rossi: i bordolesi, il Malbec, molti Syrah, il Dolcetto più ciccione (perché “potenziarlo”, perché?), a volte il Sangiovese.
Di contro, ho un debole per gli Champagne (ancor più se Blanc des Blancs) e per i Metodo Classico Pas Dosè; per i bianchi dritti, per gli orange wines; per i rossi snelli, per il Pinot Noir, per il Lambrusco (meglio se Sorbara); per il Nerello Mascalese, per i vini apparentemente “minori” (che minori non sono), per gli autoctoni rari. Eccetera.
Questo non vuol dire che non sia in grado di riconoscere la grandezza di un Brunello di Montalcino. Spero di averlo dimostrato. Ma vuol dire che, nel mio cuore, un Barolo mi emozionerà di più. E il lettore deve saperlo, perché anche questo è utile a decifrare al meglio ciò che un autore scrive. E intende comunicare. Come deve sapere che, magari, quel recensore è orgogliosamente vegetariano o pesciariano, e quindi portato a “tagliare” gran parte dei rossi più corposi (o rotondi, o tannici, o boh).
Nel vino c’è una innegabile Variabile Personale. Qualcosa che ognuno di noi aggiunge, anche involontariamente, alla valutazione critica. E che lo porta a usare aggettivi che, per altri vitigni e quindi vini, non userebbe mai. Di nuovo, vale il paragone con la musica. Se recensisco un disco di John Hiatt, mi sento fatalmente più coinvolto rispetto a un’analisi degli ultimi U2. Non vuol dire che Hiatt è (sia) più bravo di Bono Vox: vuol dire che tocca di più le mie corde. Come lo Chenin Blanc le tocca più dello Chardonnay. E questo il mio lettore, qualsiasi lettore, deve saperlo.
Se dovessi citare cinque (per fortuna sono molti di più) vitigni, o più in generale tipologie, che possono vantare nei miei confronti una “pregiudiziale positiva”, potrei elencare: Champagne (meglio se Blanc de Blancs e Pas Dosè); orange wines del Goriziano & Carso; Chenin Blanc (e in generale i bianchi spiccatamente dritti e minerali, quindi anche Riesling Mosella Style e Garganega Maule Version); Pinot Noir; Barolo (più raramente Barbaresco) con molti anni sulle spalle.
E voi?