Archive for Maggio, 2010

Recensione: WineNews

venerdì, Maggio 7th, 2010

Ecco la recensione di WineNews. Alla fine, una mia piccola riflessione. Da domani ricominceremo a parlare di vini bevuti: nel taccuino ho le riflessioni su Jacquesson, Il Cantante e altro.

E’ da pochi giorni sugli scaffali delle librerie “Il vino degli altri” (Mondadori, pagine 327, euro 18,50), l’ultima fatica letteraria di Andrea Scanzi, che segue idealmente “Elogio dell’invecchiamento” (2007), come ci suggerisce lo stesso autore nell’introduzione (“mi sono detto che un seguito di Elogio poteva starci”). Si tratta di una sorta di viaggio che conduce il lettore dalla Franciacorta all’Etna, dalla Toscana a Bordeaux, dalla Mosella all’Abruzzo, dalla Rioja all’Argentina, con lo scopo non di stabilire graduatorie ma di conoscere meglio i vini degli altri attraverso il confronto con i nostri.
Scanzi non fa mistero dei suoi maestri, la rivista “Porthos” su tutti, né tanto meno cerca improbabili mediazioni quando ci guida tra le sue preferenze enoiche (tenendo, però, a specificare che “il vino migliore non esiste” e “nessuno, nel mondo del vino, ha ragione”). Con passione e la giusta dose d’ironia e, soprattutto, con una prosa dotata di un bel ritmo, finisce per considerare, forse a ragione, il vino squisitamente come un oggetto evocativo di situazioni, luoghi e persone (dagli stessi protagonisti del mondo enologico, agli sportivi, dagli scrittori ai musicisti, in un piacevole caleidoscopio di fatti e citazioni, che spaziano dal cinema alla tv, dalla letteratura alla politica), che rispetta decisamente il modo di considerare il vino di Andrea Scanzi: “non riesco a concepire il vino senza la sua naturale connotazione conviviale”.
Il libro è molto ricco e non manca, come sembra ormai imporre questo vero e proprio nuovo genere letterario, diciamo enologico-esistenziale, la caratterizzazione di precisi “idealtipi”: dal “bevitore-damigiana” al “bevitore-Grandeur”, dal “bevitore-edonista” al bevitore-radical chic” fino al “bevitore-Buddha”, né tanto meno una specie di “checklist” delle dieci cose che l’autore pensava sul mondo del vino prima di questo libro e le dieci dopo questo vino.
Un punto di vista sul vino che proviene da “un innamorato che studia”, come si definisce l’autore, che si rivela decisamente una piacevole lettura, ma che non sembra togliere o aggiungere nulla alle discussioni modaiole più in voga nell’autoreferenziale e un po’ stanco mondo del vino italiano, questo, evidentemente, senza nulla togliere alla divertente e divertita scrittura di Andrea Scanzi (WineNews).

Ringrazio WineNews per la recensione e le belle parole. Sono iscritto alla loro mailing list ed è una delle fonti che cito nel capitolo Backstage. Un portale meritorio.
La critica finale è interessante: “decisamente una piacevole lettura, ma che non sembra togliere o aggiungere nulla alle discussioni modaiole più in voga nell’autoreferenziale e un po’ stanco mondo del vino italiano“. Non so se sia vero. E’ possibile. La mia volontà era proprio quella di non essere autoreferenziale e barboso (un po’ modaiolo sì) come molti libri sul vino. Spero di esserci riuscito.

Recensione: Intravino

giovedì, Maggio 6th, 2010

Ecco la recensione di Intravino, a firma Alessandro Morichetti. Alla fine, qualche mia considerazione.

“Andrea Scanzi è uno dei migliori giornalisti della sua generazione, che è poi la mia. Ha una moglie e due labrador di bellezza esemplare, nelle rispettive categorie. Brillante, eclettico – spazia dal tennis al vino passando per politica, Beppe Grillo, Ivano Fossati e Marco Van Basten – ha uno stile incalzante che non annoia mai. Quale che sia il tema, acchiappa il lettore e ”Il vino degli altri“, edito da Mondadori, bissa il successo del precedente “Elogio dell’invecchiamento“. Vista la drammaticità di certi numeri due è stata una piacevole sorpresa.
Pur giovave, Scanzi ha una maturità invidiabile nel mixare con equilibrio ironia,  già-sentito e momenti toccanti. Se Elogio era una sorta di “manuale del sommelier” frizzante e personale, arricchito dal racconto di 10 vini italiani d’eccellenza, Il vino degli altri è un piacevole viaggio nell’enografia, un Bignami romanzato, ironico, volutamente parziale eppur documentato di denominazioni, terroir e regioni vitivinicole del mondo. Intendiamoci, Scanzi non vuole inventare nulla, racconta zone più o meno note attingendo a piene mani da molteplici fonti: Porthos come la manualistica Ais, le guide ai vini come i consigli di preziosi compagni di viaggio (tra questi, anche i nostri Giulia Graglia per l’Argentina e Andrea Gori per la Spagna). E questo è un merito, sia chiaro. Nell’epoca del “ti cito ma mi fulminassero se lo ammetto”, Andrea Scanzi ricorda con trasporto le sue fonti, le menziona, ne prende spunto e le celebra. La lettura fila dritta come un passante di Ivan Lendl e non disdegna colpi di genio e sregolatezza alla Boris Becker. Personalmente, ho trovato più coinvolgenti i capitoli sul vino italiano e più asettici quelli esterofili. Questioni di sfumature, chiaro.
Tanti i passaggi che meriterebbero la citazione: gli approcci allo Champagne – a. leghista, “quella roba lì se la bevano i francesi”, e a. Abramovich, “sono ricco quindi lo bevo” – il Vangelo secondo Jacques Beaufort (“L’Apocalisse è aprire gli occhi, comprendere che la chimica era il linguaggio del demonio. Io l’ho compreso”), i retroscena della storica puntata di Report, il clamoroso e simpatico autogol che l’autore commette visitando Von Schubert, in Mosella – “Ci ha detto se volevamo sentire qualcosa. Certo, ma non sapevo come dirlo. Così ho detto che volevo sentire tutto tranne i Trocken. Credevo fossero i vini più scadenti. Che coglione”). Il testo letteralmente s’infiamma nei lunghi stralci d’intervista – quasi porthosiani – ad Angiolino Maule, Giampiero Bea, Francesco Valentini. Preziosi.
A cercare il pelo, un pò noioso “Il Bignami del Consumatore Iconoclasta”, evitabile qualche barocchismo da Baricco della barrique (cit.) e qualche scivolone editoriale (conoscete un affermato sommelier di nome Luca Cardini?), ma sono dettagli. Ce ne fosse di gente che parla di vino così, filtrando tutto e aprendo l’obiettivo. Ho letto “Elogio” un paio di volte e ripasserò anche qui per il bis. 18,50 euro ben spesi, altro che pizza e birra. A margine, ineccepibile il marketing 2.0. Anche stavolta un blog accompagna l’uscita del libro, con tanto di strascichi polemici. Forte, carta che rimanda al web e viceversa. Niente da dire, Andrea Scanzi è uno di noi”. (Alessandro Morichetti)

Trovo che questa recensione sia particolarmente ispirata. Anche nelle critiche. Degli strascichi polemici non intenderei più parlare, anche perché la dinamica è adesso chiara a tutti (e per questo attendo ancora scuse da qualche barone sbaronato).
Sono d’accordo: i capitoli italiani sono più appassionanti di quelli esteri. Ma è voluto e lo spiego nella prefazione: i capitoli esteri sono didattico-divulgativi, quelli italiani lirici, quelli di costume alleggerimenti.
Sulla gaffe con Von Schubert ci ho un po’ marciato: mi piace dare l’idea di essere un appassionato che sbaglia, non un espertone. L’autoironia, ancor più nel mondo cattedratico e bacuccone del vino, è necessaria. Salvifica.
Il capitolo sul Bignami Iconoclasta è un divertissement, come lo era quello sui partiti politici dei vitigni in Elogio. Anche in quel caso, fu un capitolo che piacque moltissimo ai lettori comuni (nel senso di non esperti) e ruppe un po’ le palle agli esperti (e Morichetti lo è). Ma io non scrivo su Porthos, non scrivo solo per chi sa a memoria i libri di Samuel Cogliati e i vitigni autoctoni della Loira: io scrivo per un pubblico trasversale. Devo parlare a tutti. E infatti, in radio o in tivù, c’è sempre qualcuno che mi chiede (con entusiasmo) come sia il Vino Muccino e come il Vino Battiato. E’ una cosa che funziona, su un certo pubblico. E a me faceva sorridere l’idea – per dire – di un Vino Seppi (eddai).
I refusi ci sono, almeno una decina. E sono imperdonabili: Luca Cardini (chi?), gruppo Longarotti, Barbaruc (è Barbabuc, a Novello), Avignonesi e non Frescobaldi (nel Consorzio di Cortona), etc. Me ne scuso, ma sono inevitabili quando fai un libro di 320 pagine pieno zeppo di nomi (e Mondadori non è una casa editrice settoriale). Nelle prossime edizioni le correggeremo.
Felice che anche Morichetti, come tutti i lettori, abbia compreso come il capitolo su Valentini sia uno dei più appassiona(n)ti. Lo hanno capito tutti. Tranne Valentini.
La mia compagna e le mie due labrador sono molto belle. Concordo.
La sindrome da Opera Seconda terrorizzava anche me.
Qualche baricchismo nella barrique (cit) c’è. Volutamente. A volte ero in vena zuzzurellonica (?). Già immaginavo Edmondo Berselli che mi telefonava e mi tirava le orecchie, come faceva sempre. Ma qualcuno ha diversamente voluto. E ancora mi girano.

Stasera, dalle 18.30-19, a Piazza Farnese, comincia la serata (fino a tarda notte) dedicata al Premio Durruti. La premiazione ci sarà attorno alle 21-21.30. Il Gran Cerimoniere sarà Fulvio Abbate, che presenterà il suo nuovo libro, Manuale di sopravvivenza. Se ci siete, ci vediamo.

Recensione: Lavinium

mercoledì, Maggio 5th, 2010

Pubblico qui la bellissima recensione pubblicata oggi da Roberto Giuliani su Lavinium. Lo ringrazio. E rinnovo la mia stima (peraltro ammessa nel capitolo Backstage) per il suo portale.
Domani – giorno in cui festeggerò 36 anni e riceverò a Roma il Premio Durruti come miglior giornalista italiano – pubblicherò la recensione di Intravino. Dopodomani quella di Winenews. Grazie.

Confesso che mi sento fra i colpevoli, cioè fra tutti coloro che hanno apprezzato il suo Elogio dell’invecchiamento, e che ora sono responsabili, come simpaticamente afferma l’autore, di averlo spinto a scrivere un altro libro. E meno male! Si, perché a dirla tutta di libri davvero piacevoli su questo argomento ne sono stati scritti pochini; tralasciamo le guide e i manuali, che per loro natura sono inesorabilmente da prendere a piccole dosi, ma se andiamo a spulciare fra i vari romanzi, racconti e saggi su questo o quel produttore, o ancora peggio su questo o quel grande vino, non è che c’è proprio da dire, come Montesano nel ruolo del gagà Dudù, “oh come mi sono divertito, oh come mi sono divertito”…
Uno dei punti di forza di Andrea Scanzi è proprio nello stile, nell’approcciare un tema che, per sua natura, sarebbe destinato a una ristretta cerchia di enodipendenti, e che invece assurge a libro “per tutti i palati”. Quale miglior metodo nell’intraprende lo sfaccettato e contraddittorio mondo del vino se non partire da qualcosa di apparentemente lontano come la saga di Rocky Balboa, passando per le disavventure del fallimentare Chuck Wepner, da cui Stallone ha preso spunto per il suo personaggio restituendogli una insperata dignità, trasformandolo da masochista perdente a masochista vincente (con l’Elogio Andrea non aveva osato tanto, rimanendo abbastanza “in tema” con Sideways)? Per poi immergersi in un viaggio in trenta capitoli, dieci all’estero, dieci in Italia e dieci di alleggerimento. E lo riconfesso, ancora una volta un suo libro mi è piaciuto, fortemente, ne ho apprezzato il tocco pittorico della narrativa, il saper giocare ed essere serio nello spazio di due righe, sempre con grande ironia (“Ho sempre pensato che bere facesse male. Così ho smesso di pensare”…”Gli scribi, oltre a essere fingitori come i poeti e i sommelier, sono pure sostanzialmente scemi.”).
E mi piace quando sottolinea che “lo Champagne è il vino più famoso al mondo, eppure la conoscenza media che se ne ha è del tutto provvisoria. A fama immensa, corrisponde sapienza superficiale”. Attorno allo Champagne girano tanti luoghi comuni, ma chiunque, indipendentemente dalla classe sociale a cui appartenga, appena dice Champagne si possono tranquillamente osservare delle bollicine vagare sul suo umor vitreo, senza che ce ne sia una reale motivazione. Basterebbe farsi un giro nella regione per rendersi conto di come il fenomeno industriale (del vino) abbia fatto danni praticamente irrecuperabili, E fa bene Scanzi a citare il libro di Samuel Cogliati, uno di quei testi che tutti dovrebbero avere letto. Questo non vuol dire che non ci siano grandi Champagne, sarebbe cosa falsa e ingiustificata, ma certamente “Champagne” non è sinonimo di “grandi bollicine” solo in virtù di una storia secolare che il tempo ha profondamente trasformato, e non in meglio.
Molto interessante, e direi inevitabile, il capitolo successivo dedicato alla Franciacorta e alle altre zone spumantistiche italiane, addentrandosi nel particolare di produttori e vini, raccontando anche di degustazioni sempre in modo discorsivo, mai noiosamente tecnico.
Non fatevi ingannare dal terzo capitolo, “Cento cose da sapere sul vino degli altri”, si potrebbe pensare “ecco, ci siamo, ora comincia la lezione”, niente di più sbagliato, è un questionario (che ha già le risposte) che non è altro che una scusa per raccontare le meraviglie e le zone d’ombra di questa o quella zona vinicola della Francia, della Romania o del Sudafrica, senza mai la presunzione dell’ultima parola, del sapere assoluto. Sono spunti di riflessione, e anche qualche dritta che può sempre essere utile.
La pagina che ha sconvolto il web: 131
Mi piacerebbe continuare a parlare di ogni capitolo del libro ma finirei per scriverne uno a mia volta annoiandovi a morte, mi limiterò pertanto, perché desidero farlo, a esprimere un mio personalissimo parere su una pagina che è diventata oggetto di discussioni e dibattiti in numerosi “salotti” della rete: Sto parlando della pagina n. 131 che fa parte del capitolo “Arte ad ogni costo (Syrah Cortona)“, pubblicata integralmente da Franco Ziliani il 19 aprile sul suo blog vinoalvino.org, che ha scatenato una sequenza di interventi e di rimbalzi su altri siti e forum della rete, oltre ad aver spinto nientemeno che i proprietari dell’azienda Brancaia e l’enologo Carlo Ferrini (o meglio il suo avvocato Bernardo Losappio, già legale della Banfi), citati nel testo, a una replica chiarificatrice (leggete qui e qui). Cosa ha scatenato tutta questa bagarre? Andrea Scanzi, per la stesura di questo capitolo è andato a trovare Massimo D’Alessandro, autore del più rappresentativo e conosciuto Syrah cortonese, “Il Bosco”. Il noto produttore (azienda Tenimenti D’Alessandro), nella pagina “incriminata”, si sbottona e racconta di aver cambiato enologo nel 2006: “Con i winemaker di grido c’è un problema: pensano solo al fatturato. Seguono 60 aziende, vivono in auto, ogni mese ne cambiano una e sempre più costosa. Chioccioli ci seguiva qualche giorno, poi scappava via. Non era adatto alla nostra storia”. Fin qui niente di sconvolgente, in fondo abbiamo visto tutti in “Mondovino” di Jonathan Nossiter il famosissimo enologo francese Michel Rolland, dare suggerimenti alle aziende via telefono dalla sua Limousine con autista. Ma D’Alessandro va oltre: Adesso dirò una cosa che lei forse non dovrebbe scrivere, ma la dico lo stesso: i toscani sono furbi. Hanno sempre fatto vino un po’ finto, è nella loro storia. Lei saprà meglio di me che è in corso un’inchiesta durissima sul vino toscano. E’ molto più di un’inchiesta. In breve si è scoperto – secondo l’accusa – che un grande enologo, Carlo Ferrini, faceva vino in Toscana utilizzando vino proveniente da altre regioni. A quanto ho capito, hanno proprio beccato il fornitore con tanto di fatture emesse. Il fornitore era un abruzzese, i container col vino viaggiavano di notte per non farsi scoprire. La giustizia farà il suo corso, non entro nel merito e non arrivo a conclusioni, mi limito a riportare quello che so, ma adesso se ne parla più di prima soltanto perché per caso l’inchiesta è andata in mano a un magistrato integerrimo. Vuole che sia brutale? Temo che in Toscana il vino si sia sempre fatto così”. E continua “Vigneti scadenti, vigne di basso livello, migliorati da un vino-base fatto venire da altre regioni. Questo vino-base ha un altissimo residuo secco, il sapore è neutro perché non lo si riconosca ed è fatto con metodi ipertecnologici: raggi infrarossi, cose così. Serve a dare colore, struttura, concentrazione. Sono stati fatti sequestri ovunque. Sono amico di Brancaia, mi hanno detto che da loro hanno sequestrato 75 mila bottiglie già vendute agli americani. E’ accaduto anche a Frescobaldi e altri. Sa qual è l’unica soluzione? Allontanare quel magistrato, perché è una metodologia troppo radicata in Toscana. Non cambierà mai.”. Capite bene che una “rivelazione” del genere, soprattutto riportata su un libro, non poteva passare inosservata e non scatenare reazioni molteplici, non ultima quella di accusare Scanzi di aver manipolato quelle dichiarazioni. Come spesso accade però, ci si sofferma a ciò che più ci colpisce, tralasciando particolari assai rilevanti come il passaggio immediato nella pagina successiva da parte dell’autore, che afferma in modo netto: “E’ anche per queste parole, caro Gigi Garanzini, cari amici lettori, che mi sento un toscano apolide. A prescindere dalle implicazioni giuridiche, dalle persone direttamente coinvolte. Tutti, fino a prova contraria, sono innocenti”. A mio avviso, se c’è qualcosa su cui si può discutere o dissentire relativamente alle dichiarazioni di D’Alessandro, è su una certa generalizzazione e su una interpretazione unilaterale di un modo di fare vino in Toscana. Probabilmente si è lasciato prendere la mano, avrei apprezzato molto di più il suo intervento se la chiosa fosse stata “Temo che una certa Toscana il vino lo abbia sempre fatto così”. Le storture, le frodi, il malcostume, sono cose reali che esistono in qualsiasi regione e in qualsiasi contesto economico, ma è assolutamente ingiusto e riduttivo fare di tutta l’erba un fascio. In Toscana ci sono produttori integerrimi e puri fino all’inverosimile, che per portare avanti la loro realtà e le loro idee si sono trovati spesso anche in profonda difficoltà finanziaria, pressati da un mercato che ragiona con regole ben diverse (e qui incidono fortemente i media, i giornali, il web e tutti coloro che mettono sul piedistallo questo o quel prodotto secondo una logica quantomeno opinabile). Quando vedi che il sistema ha regole totalmente diverse e discutibili, quando ti rendi conto che il tuo vino, per quanto lo fai con tutto l’amore e l’onestà possibile, non seguendo schemi e mode imposti in quel momento, non si vende o quantomeno viene ignorato perché non risponde al gusto e ai canoni del momento – e mantenere un’azienda vitivinicola ha dei costi non indifferenti – la tentazione di cedere, di trovare scorciatoie, non illegali, ma sicuramente indirizzate a scelte che non ti appartengono ma funzionano per i modelli attuali, come avere la consulenza di un enologo di grido, che farà un altro vino, certamente non il tuo, come l’utilizzo di certi vitigni riconosciuti in tutto il mondo, di certe botti e di certe pratiche consolidate di cantina che trasformeranno il tuo vino in qualcos’altro, magari un po’ finto, ma di sicuro successo, come l’esserci a tutti i costi nelle guide perché serve, ancora serve checché se ne dica, beh, quella tentazione ti può anche venire. E forse un esamino di coscienza se lo dovrebbero fare in molti, non solo i produttori. Ma questo è un altro discorso…
Tornando a “Il vino degli altri”, che ha molte pagine interessanti oltre alla fuorviante “131”, oltre a fornire numerosi spunti di riflessione, riesce a tenere costantemente alta l’attenzione, a divertire, a ricordarci che non bisogna prendersi troppo sul serio, che l’ironia, e l’autoironia, sono il vero sale della vita. Così, quando arrivi in fondo a quelle quasi 330 pagine, hai un solo rammarico, che sia finito, e la speranza che l’autore (in fondo è ancora giovanissimo e ne ha di strada davanti), sotto la spinta non tanto del successo quanto dei suoi numerosi estimatori, si rimetta presto al lavoro per proporci quanto prima una nuova, indimenticabile, avventura enoica.

Strane deontologie

lunedì, Maggio 3rd, 2010

In calce alla recensione (grazie) di Intravino, oggi Daniele Cernilli, direttore responsabile del Gambero Rosso, scrive (o piuttosto sentenzia): “Saranno anche preziosi gli interventi di Bea e di Maule, però Francesco Valentini mi ha telefonato imbufalito perchè. mi ha riferito, il senso delle cose che ha detto è stato completamente travisato. La stessa cosa che afferma Massimo D’Alessandro. Credo che ci saranno strascichi legali (..) Ho testimonianze dirette di quanto affermo e se questo appare “strano” a qualcuno peggio per lui. Non sono affatto compiaciuto, noto solo che, se fosse vero, non sarebbe una bella pagina dal punto di vista della deontologia professionale nè per chi ha scritto nè per chi ha riportato, prendendosi quindi le proprie responsabilità. Come è peraltro giusto che sia, ci mancherebbe (..) A me era piaciuto molto “Elogio dell’invecchiamento”, il primo libro di Scanzi, che trovo un ottimo scrittore ed una persona sicuramente competente. Mi è capitato di ricevere due telefonate da parte di due produttori che sono persone di indubbia onestà intellettuale, come Francesco Valentini e Massimo D’Alessandro, che prendevano le distanze da quanto era loro stato messo in bocca dallo Scanzi nel suo ultimo libro, e questo ho raccontato“.
Di fronte a tali affermazioni, alcune delle quali gravissime (poiché inventate o quantomeno male espresse), sono costretto a replicare. Se non l’ho fatto prima, è perché sono appena tornato da Jerez de la Frontera, dove ho seguito il motomondiale come inviato del mio giornale, La Stampa.
Come ho scritto nel libro, e poi nel mio blog, ne Il vino degli altri (che non è un libro scandalistico, ma che contiene anche pagine di giornalismo d’inchiesta) non ho fatto che riportare fedelmente le parole ascoltate da Francesco Valentini e Massimo D’Alessandro. E sottolineo parole LORO, non mie. Non sono stato io a nominare Carlo Ferrini, Brancaia, Barilla, eccetera. E sono stati loro – in entrambi i casi – a calcare la mano su certi aspetti “forti”.  Non io. Non li ho certo obbligati. Non cercavo minimamente alcuno scoop, e se anche lo avessi cercato, non sarei andato a bussare alla porta di una persona pacata e misurata come il Professor D’Alessandro.
Ho nuovamente parlato con Francesco Valentini dopo l’uscita del libro. Sarà stato il 13-15 aprile. L’ho fatto subito, oltremodo stupito dalla sua insoddisfazione (comunicatami da Maule). Non volevo crederci, ma era vero. Valentini si è lamentato di come non abbia riportato integralmente l’ora e più di dialogo (cioè di non avergli dedicato ottanta pagine), in particolare i passaggi su Barilla, grano radioattivo e olio Carapelli, che secondo lui ho “tagliato” male. Non condivido, ma ne prendo atto. Valentini ha anche chiesto di togliere, nelle prossime edizioni, alcuni passaggi. Non è cosa che mi esalti, ma se lo preferisce, è quel che farò. Lui sa benissimo che non ho travisato NIENTE. Come sa benissimo che a dargli fastidio sono state soprattutto altre cose (ad esempio le parole – pur affettuose e deferenti – di Maule sul padre di Francesco, Edoardo: pag 165-6). E’ stata comunque una chiacchierata serena (quella fatta dopo il libro, intendo), anche se ho trovato deludente il comportamento di Valentini. Soltanto lui non si è reso conto di come il suo sia uno dei capitoli più toccanti. Un incontro bellissimo. E tale per me resterà. Ho adorato, quel pomeriggio a Loreto Aprutino (nonostante i disastri del navigatore), Valentini e sua moglie. Anche se – consentimelo, Francesco – questa parziale retromarcia, per uno che dice di lottare e combattere, non è un bel vedere. Mette un po’ tristezza, ecco. E te lo dico con immutato rispetto. Non ti credevo parte attiva dei “coraggiosi a microfoni spenti” e spero ancora di sbagliarmi.
Riguardo a D’Alessandro, ho riportato le parole esatte da lui usate, all’interno di un capitolo intero (positivo) a lui dedicato. Ho riparlato con il professor D’Alessandro adesso (3 maggio 2010, ore 20) al telefono e smentisco categoricamente, nella maniera più assoluta, le parole di Cernilli. D’Alessandro non ha mai, e dico MAI, detto a Cernilli che ho inventato o travisato tutto. Al telefono mi ha bensì detto – con risentimento, questo sì – che tutte quelle cose le ha effettivamente pronunciate (compresi i dettagli, come quello del “fornitore abruzzese”) ma che è stato “ingenuo” e “pollo” (riporto anche qui fedelmente i virgolettati) nel riferirle a un giornalista, e che sperava – pur non avendomelo chiesto – che non avrei scritto proprio tutto. Ha poi detto che il tono di alcuni suoi giudizi, ad esempio sui Syrah di alcuni colleghi (Macchiole, Isole e Olena) appare nel libro più forte e stentoreo (“Le mie erano solo battute sui vini di persone amiche”). Trovo giusto riportarlo anche qui.
In questo senso D’Alessandro, che come Valentini non ha alcuna intenzione di adire vie legali (di cosa?), ha mandato lettere di scuse ai diretti interessati (Brancaia etc), sostenendo di essere stato “ingenuo” e “usato”. MAI però ha scritto che io mi sono inventato tutto o che ho travisato. Men che meno – e lo sottolineo: men che meno – riguardo alle sue parole di pagina 131. E’ una calunnia totale e diffido Cernilli e le sue ligie adepte dall’insistere su tale china, passibile – questa sì – di vie legali. Chissà che non sia io a querelare qualcuno, a questo punto. E non viceversa.  
Da quando è diventato un reato intervistare una persona e trascrivere (asetticamente) quanto dicono, anche se quello che dicono è scomodo? A che punto siamo arrivati in questo paese, esimio Cernilli? E’ grave che io abbia riportato il virgolettato di una intervista o piuttosto che SOLO adesso un’azienda lodata e titolata racconti come il Brancaia Tre venga fatto? Può rispondermi, esimio Cernilli? Può rispondere anche e soprattutto ai lettori, ai consumatori? Magari, se ha difficoltà, chieda aiuto alla amena Lady Guerini, la giornalista più premiata dagli Antinori e Frescobaldi. Vedo che, quando c’è da far difese corporative, certi “critici integerrimi” son subito scattanti a correre in soccorso del vincitore.
E’ vero invece (non lo nego affatto) che sia D’Alessandro che Valentini si sono sentiti delusi dal mio comportamento (umano, non giornalistico). Ritengono che, pur  non avendo inventato NULLA, e ribadisco NULLA, li abbia “usati” per fare lo scoop. Prendo atto anche di questo, ma non condivido. E continuo a stimarli. Anche se tale accusa, fatta da persone per cui ho grande ammirazione, mi offende. E rimango ferocemente dell’idea – rispettosa opinione personale – che la loro sia “paura tardiva”, del tipo accidenti mi sono lasciato prendere la mano dalla conversazione e ho parlato troppo, dicendo cose che tutti sanno ma che era meglio non dire.
Specifico che nessuno degli intervistati mi ha chiesto, prima della pubblicazione, di leggere il capitolo. Nessuno. In 13 anni di giornalismo, del resto, me l’hanno chiesto solo Bruno Vespa, Giovanni Floris, Maurizio Costanzo, Gene Gnocchi e Michele Santoro (potete chiederglielo). E’ un’eccezione,  non la regola. E deve essere l’intervistato a chiederlo: non viceversa.
Non parliamo quindi a sproposito, anzi calunniosamente, di deontologia o invenzioni: io ho riportato correttamente le parole che mi sono state dette. Quello che dovrebbe fare un giornalista (libero). Se poi alcuni intervistati, del tutto legittimamente, ma a mio avviso poco coerentemente, si sono pentiti di ciò che hanno affermato una volta trovate le loro parole su pagina (e su pagina la parola appare più forte), è altro discorso.
Un giornalista fa interviste e riporta quello che un intervistato dice. E ogni tanto “prova a far tana”. E’ una vecchia regola del giornalismo: quello vero, almeno. L’intervista, una volta uscita, non deve necessariamente piacere all’intervistato. E’ la differenza che passa tra giornalista e addetto stampa (capito, ghenga del Gambero Rosso?).
E’ affascinante come l’esimio Cernilli e i “garantisti”, col consueto approccio cattedratico e sentenziante, con questa eterna sicumera di chi dall’alto scomunica il “gggiovane” parvenu che ha osato aver successo in un mondo di bacucchi, stiano spostando l’attenzione dal fatto in sé: ovvero che le parole (vere) di D’Alessandro (non mie) sono state confermate dai diretti interessati, almeno nei punti chiave (inchiesta esistente su vini taroccati, coinvolgimento di Carlo Ferrini – di cui forse l’esimio Cernilli è grande amico -, bottiglie bloccate a Brancaia). E’ questo l’aspetto fondamentale. Questo. Questo e il rispetto per le parole degli intervistati, per le persone implicate e per il lavoro della magistratura: tutte cose mai venute meno. Stiamo parlando di una inchiesta. Non di sentenze.
In Italia ormai non si contesta il giornalista connivente, ma quello che ha l’impudenza di riportare  (integralmente) i passaggi più spinosi di una intervista. Questa, esimio Cernilli (contro cui personalmente non ho nulla, cit), è forse la “deontologia professionale” deprecabile.
Un’ultima cosa: non vorrei che l’astio, e la pervicace difesa dello status quo, esibiti dall’esimio Cernilli derivino in realtà da urgenze personali.  Da una certa permalosite. Dal fatto, ad esempio, che nel libro venga dato spazio a molti vignerons scomodi, poco graditi da Gambero Rosso. Che si ricordi minuziosamente il caso Report, da cui Gambero Rosso uscì malino. E che alcuni di questi vignerons, come Angiolino Maule, raccontino (anche sull’esimio Cernilli) aneddoti non proprio edificanti.
Oppure Lucifero Scanzi ha circuito anche Maule, coi suoi fatali occhioni blu?
Mi riferisco, visto che siamo in vena di citazioni dal libro, a questo passaggio. Giusto per dirne uno. Pag. 168-69. Parla Maule. “Avevo il mito del Gambero Rosso, ma l’ho perso presto“. Una volta Maule ha vinto un Tre Bicchieri. “La premiazione, a Torino, fu asettica e triste. Direi proprio sciatta (..) Per il Veneto, come sempre, c’era anche Anselmi. Lo premierebbe sempre, anche se dentro una bottiglia ci mettesse la pipì. Proprio Anselmi, prima di essere premiato, telefonò davanti a tutti noi, platealmente, a Daniele Cernilli. Cernilli era sul palco e rispose al cellulare, come se il pubblico non esistesse. Anselmi non doveva dirgli nulla di urgente, lo fece solo per far vedere che erano amici. Usò un pretesto, mi pare l’avvenenza di una ragazza sul palco. Non fu una grande esperienza. Oltretutto era appena andato in onda il servizio di Report sui vini industriali e le guide asservite“. Tale aneddoto è stato smentito da Cernilli e Anselmi.
Mi perdoni, esimio Cernilli, se quando avverto l’urgenza di saperne di più sulla deontologia professionale, o addirittura inseguo maestri, telefono a Gianni Mura o rileggo Edmondo Berselli. Non certo lei.

P.S. Alcuni lettori mi contestano i refusi. Avete ragione. Del tutto. Li correggeremo.

Lady Sfuso e il pattume

domenica, Maggio 2nd, 2010

Un lettore, Michele Malavasi, mi ha segnalato l’articolo di una blogger, non esattamente affettuoso, a me dedicato. E’ di tale Eleonora Guerini, che ovviamente non conosco, ma che dal tenore della sua replica (non si sa bene a che cosa) appartiene verosimilmente alla pletora di addetti ai lavori che se la suonano e se la cantano. Quelli che se la presero per l’ironia leggera di Elogio dell’invecchiamento nei confronti dei sommelier-tromboni (ah, lesa maestà). Quelli che, se li leggi, diventi astemio e sugli esperti-di-vino la pensi come Antonio Albanese in quel monumentale sketch.
Non è una piccola categoria: per coloro che, con toni caricaturalmente autoreferenziali, credevano di essere depositari del Verbo di Enolandia, il successo di un cazzaro (cit) come me, per giunta addetto ai lavori di straforo (nel senso che solitamente mi occupo d’altro), è stato un colpo inferto al cuore. Da cui non si riprenderanno mai. Mi ricorda i vecchi americani incartapecoriti quando gli arrivò in faccia la beat generation. Loro scomunicavano, e nel frattempo il loro mondo non c’era già più (sveglia, Eleonor Rigby: time is not on your side).
In questo senso, Eleonora Guerini assurge pienamente a ciò che io definisco marker al contrario, come Filippo Facci in politica: se loro scrivono una cosa, e tu non la condividi, allora puoi stare tranquillo. E gridare anche C’mon.
Va da sé che, se mi mettessi a replicare a tutti quelli che ce l’hanno con me, non solo farei notte, ma avrei pure l’impudenza di rendere mediamente celebri giornalisti frustrati e opinion maker conniventi.
Perché, allora, questo post? A) Perché sono uno zuzzurellone. B) Perché adoro commentare gli spifferi. c) Perché lo scritto di Eleonora Guerini è emblematico (e vedrete a breve di cosa).
Tale Guerini, con hybris invero notevole (persino superiore alla mia), si firma – in un blog gamberorossiano frequentato come le conferenze stampa di Tabacci alle tre del mattino – “Lady Wine”. Mica niente: Lady Wine. La Signora e Sultana del Vino. Sticazzi e oibò. Mi pare un po’ troppo. Urge una diminutio. Chiamiamola, qui, Lady Sfuso (ed è un nomignolo affettuoso: avessi inseguito la cattiveria, avrei tolto la prima “s” e declinato il participio al femminile).
Perché Lady Sfuso ce l’ha con me? Per la solita pagina 131 (chepppalle). Lei ha letto solo quella pagina, e non benissimo, ma le è stato sufficiente per far tuonare le trombe del giudizio universale contro me e il “giornalismo taroccato”. Daje.
Fin dalle prime battute, Lady Sfuso ci fa capire con indicibile arguzia che lei è donna molto impegnata (“solo oggi sono in grado di rispondere”) e  conosce – come nessun altro – i produttori. Per questo li difende. Anzitutto quelli di Brancaia, che chiama per nome (“Barbara Widmer, proprietaria insieme a Martin“).
In quanto conoscitrice, anzi amica, di tutti i produttori, Ella li tutela. A prescindere, per Dna. E’ la difesa corporativa di un sistema che dà a tanti da bere e da mangiare, ladies and gentlemen. Il suo sembra (sembra: magari sbaglio io) l’articolo di Nicola Porro dopo un editoriale di Marco Travaglio che parla di una inchiesta (reale) su Silvio Berlusconi. La sempiterna difesa d’ufficio, non richiesta e con poche idee (ma fieramente confuse).
Si faccia ora una seria esegesi del pensiero – in dieci punti – di Lady Sfuso. Ascoltiamola.

1) “Immagino che questo libro (il mio, NdA) riscuota i favori di tutti gli intransigenti del vino, quelli per cui esistono SOLO Poggio di Sotto e Bruno Giacosa”.
Lady Sfuso esordisce con cipiglio, insultando tutti i lettori del libro (ma va capita: non avendo pubblico, non sa di cosa parla), reputandoli dei bacucconi integralisti che si eccitano con Porthos e bevono solo Joly. Il fatto che Il vino degli altri sia un libro tutt’altro che “cattivo” o “scandalistico”, bensì passionale e ironico, e che tali ironie vadano a toccare pure i “vinoveristi”, chiaramente per Lady Sfuso è irrilevante. Come lo è il mio continuo sottolineare che “il vino migliore non esiste”, che la Toscana NON è  solo quella degli scandali e che non esistono certezze inconfutabili.

2) “Quello che è accaduto tra Scanzi e D’Alessandro è, dal mio modesto punto di vista, pattume giornalistico”. Brrrrr: che impeto, che verve, che grinta. Lady Sfuso va alla guerra: facce sogna’. Perché pattume, altra parola (desueta) tipica di certi editoriali “garantisti”? Ce lo spiega subito. Ascoltiamola ancora: “Conosco troppo bene il professor D’Alessandro (per forza, lei conosce TUTTI), la sua modestia, la sua colta sensibilità, la sua raffinata e non codarda predilezione per le sfumature per crederlo capace, anche solo per un secondo, di certi toni. E penso che la sua fanciullesca ingenuità sia stata predata dal buon Scanzi (grazie del buon) che, le sue orecchie forse non credevano a quel che sentivano! (più che altro non credo a una sintassi così pietosa e raggelante), non cercando la verità ma lo scoop stava facendo bingo (bastardo che non sono altro)“. 

3) Quindi mi sono inventato tutto, Lady Sfuso? Oppure ho letto nel pensiero? “Intendiamoci io non credo che Scanzi si sia inventato tutto (meno male, va’. Ero in pensiero). Però credo che abbia molto enfatizzato, calcato i toni, facendo apparire D’Alessandro come uno convinto che al mondo ci siano solo il bianco o il nero, i buoni e i cattivi e che lui, dall’alto della sua Cortona, sta lì a dispensare giudizi”. 
Tale intemerata sgangherata presta se non altro il fianco (?) a una specifica. Il punto non è inseguire il plauso di Lady Sfuso (faccio il giornalista da 13 anni e avrei altri punti di riferimento). Lady Sfuso, come tutte le addette ai lavori dotate di straordinario equilibrismo, temono sempre che qualcuno smascheri coperchi indesiderati. Problema suo.
Il punto vero è: D’Alessandro. Secondo la lettura di Lady Sfuso, io sarei stato il Demone Tentatore e lui, in poche parole, un mezzo tontolone. Non mi lusinghi così tanto, Lady Sfuso (e non sia così dozzinale col professor D’Alessandro). Lei ha ragione solo su un punto: è stato un discorso “a ruota libera”. Davvero. Due ore, registrate, all’ora di pranzo. Nel suo studio romano dietro il carcere di Rebibbia. Una chiacchierata tranquilla e serena, come si evince dal capitolo intero a lui dedicato.
Se si legge solo pagina 131, si ha (forse) l’idea di lui come di un manicheo. Affatto. Non solo: io non stavo minimamente cercando lo scoop, ma solo la risposta italiana ai Syrah del Rodano. Non ci pensavo neanche alle inchieste. Per questo, come scrivo chiaramente a pagina 131, la sua “bordata” è arrivata del tutto inattesa. E’ stato D’Alessandro a dirla, non costretto a forza ma spinto – col consueto garbo – da una sua urgenza, appena titillata da una domanda innocua (il suo rapporto di lavoro interrotto con Stefano Chioccioli). Io mi sono limitato, a quel punto, a riportare fedelmente le sue parole. Senza enfatizzarle affatto (anzi). Casomai le hanno enfatizzate (e li capisco) i blogger che lo hanno estratto dal contesto (decisivo) del libro.
In altre parole (e non ci faccio un figurone eroico): lo scoop è merito suo. Io, quel giorno, non lo inseguivo affatto. Né potevo “inventarlo”, non essendo a conoscenza di quanto affermato (dettagli inclusi) dall’intervistato.

4) La cosa affascinante (l’unica, forse) delle reazioni dei più realisti del re è come distolgano l’attenzione dal fatto in sé.  Ovvero: non è importante cosa D’Alessandro abbia detto, e se poi esso sia risultato vero, ma “come” lo abbia detto. Traduco per Lady Sfuso. D’Alessandro (non io) ha detto tre cose. 1) Che esisteva una inchiesta sui vini toscani taroccati. 2) Che questa inchiesta riguardava anche Carlo Ferrini. 3) Che alcune bottiglie di Brancaia sono state sequestrate. Questi tre punti sono stati tutti confermati, non da me ma dai diretti interessati (Ferrini e Brancaia). Capisco che fare giornalismo in Italia sia desueto, ma dovrebbe funzionare così. Se poi D’Alessandro lo abbia detto piangendo (no) o dispiaciuto (sì), è aspetto secondario.

5) “Lui, dall’alto della sua Cortona, sta lì a dispensare giudizi”.  Non so D’Alessandro, ma è esattamente quello che faccio ogni giorno. Organizzo apocalissi e giudizi universali, usando le mie labrador come emissari celesti. I buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Le Lady Sfuso nel mezzo. Sempre nel mezzo.

6) “Io credo invece che abbia parlato a ruota libera, probabilmente condividendo preoccupazione, sicuramente non condividendo le pratiche mescolative del mondo del vino italiano, certamente senza quell’arroganza che molti sembrano mostrare sempre più tra critici e produttori”. E’ verissimo. Infatti, chi legge tutto il libro, se ne rende chiaramente conto. Lady Sfuso ha appena rivelato al mondo ciò che il mondo già sapeva. Complimenti per la guittezza.

7) “Faccio un esempio (go Lady Sfuso go). La frase: penso a Barbara Widmer, dell’azienda Brancaia, pure a lei hanno sequestrato del vino (la frase non è così nel libro, e anche questo dimostra quanto Lady Sfuso abbia letto con attenzione pagina 131). Pensiamoci un po’, uno la può dire con le lacrime agli occhi (notate: Lady Sfuso non c’era, ma – conoscendo D’Alessandro e l’umano mondo come nessuno – pretende di saperne più di chi c’era, addirittura interpretando i toni di voce e la prossemica dell’intervistato: i-d-o-l-o); con un tono sommesso (no), preoccupato (), dispiaciuto (verissimo: e dal libro si capisce), magari riconoscendo così il gran lavoro che, vino comprato o meno, uno sa che in quell’azienda si fa; con disprezzo e compiacimento, come a dire le sta proprio bene a quella… (anche questa frase è scritta con punteggiatura e significati random: mi stupisco di come Lady Sfuso non abbia ancora scritto libri sul vino. Sarebbero piacevoli scorribande nel dadaismo). Insomma, lo sappiamo tutti (ma anche no). Il significato di una frase non sta solo nelle parole”. Certo, Lady Sfuso: sta anche nella manipolazione che se ne fa, a proprio piacimento e per interesse personale. Ciò che ha appena fatto. 

8 ) “Detto questo un po’ mi dispiace anche per la questione Brancaia in sé. E’ un vino questo che a me è sempre piaciuto”. Toh, ma va’? Davvero? E che magari ci sia questo, l’amicizia unita a interessi personali (gelosia, fastidio, imbarazzo) dietro tale filippica sgangherata? Per la cronaca, giova ricordare come anche il Dottor D’Alessandro sia amico di Brancaia (come scrivo nel libro). Essere amici non equivale necessariamente a un comportamento ispirato alle arcinote scimmiette.

9) “Ora quello che dicono i Widmer è sacrosanto e corretto (Tavole della Bibbia, oserei dire): l’acquisto di vino sfuso è consentito (mai scritto il contrario). Lo è per le denominazioni così come per gli igt. I produttori sostengono che viene usato solo per la produzione di Brancaia Tre, il vino di pronta beva che raccoglie il vino non utilizzato per la produzione del top di gamma. Il che non solo non costituisce reato ma è anche comprensibile”.
Detto che NESSUNO ha mai detto che è reato, e che il libro non formula sentenze di colpevolezza ma informa (correttamente) i consumatori di una inchiesta, rimando all’analisi di Francesco Arrigoni (Corriere della Sera) e al mio precedente post sulle perplessità della replica di Brancaia. Non ultime, il fatto che l’etichetta non parli di vino sfuso e (ancor più) che tale ammissione sia arrivata obtorto collo, per costrizione. E la “costrizione” era il mio libro, in cui si alludeva a un fatto (bottiglie bloccate/sequestrate) confermato da Brancaia stessa.
Ci sta ancora ascoltando, Lady Sfuso? E’ comodo il pero da cui non è ancora caduta?

10) “Ma purtroppo siamo in Italia, dove tutto si fa e niente si dice. Dove da troppo tempo – un paio di millenni???? (ha fatto la battuta: ridete) – siamo abituati al fatto che quanto ci viene propinato, nel vino, nel cibo, in politica, nell’impresa, spesso non corrisponde poi allo stato delle cose”. 
Saggio di equilibrismo monumentale, quest’ultimo. Genere “fingo di dire qualcosa ma in realtà non mi sbilancio”. In queste cose (almeno in queste), le Lady Sfuso sono insuperabili.

In estrema sintesi: è vero o non è vero che esiste l’inchiesta a cui allude D’Alessandro? E’ vero o non è vero che riguarda anche Ferrini e Brancaia? E’ vero o non è vero che le parole di D’Alessandro si sono rivelate puntuali e credibili? E vero o non è vero che queste cose, e nemmeno qualcosa di minimamente vicino, si è mai letto nel suo blog epocale? E’ vero o non è vero che il libro ribadisce più volte la presunzione d’innocenza?
Non tergiversi o sposti l’attenzione, Lady Sfuso. Questo e solo questo è il punto.
E infine: solo perché una persona ha scritto un libro (anzi due) al suo posto, avendo l’ulteriore colpa di un certo successo, e avendo pure l’ardire di svelare inghippi non esattamente edificanti (che mai pare aver sentito l’impulso di rivelare): solo per tutto questo, c’era bisogno di esporsi così pervicacemente al pubblico ludibrio, vergando un tale exemplum di acquiescenza critica?
Mi stia bene, assai gentile signora, e (non) continui così.

P.S. E ora scusatemi, ma devo organizzare il Giudizio Universale di stasera.

P.P.S. Nell’ultima foto, Eleonora Guerini è premiata come “miglior giornalista” dai noti produttori alternativi Piero Antinori e Lamberto Frescobaldi. Tutto si tiene (cit).