Archive for the ‘Il vino degli altri’ Category

Premio Pescara Abruzzo Wine

martedì, Novembre 23rd, 2010

Scrivo un nuovo messaggio per comunicare una bella notizia.
Venerdì prossimo, 26 novembre, riceverò il Premio Pescara Abruzzo Wine – Vino e Cultura come miglior giornalista dell’anno.
La manifestazione, giunta alla quinta edizione, è un evento Ais e della Regione Abruzzo.
La premiazione avrà luogo venerdì alle ore 17, presso la Sala Consiliare di Pescara, alla presenza del Sindaco e delle istituzioni (cit).
Verranno poi premiati i migliori vini abruzzesi dell’anno.
Una bella soddisfazione, di cui volevo rendervi partecipi.
Così come non credo ai “migliori vini”, non credo ai “migliori giornalisti”, non tramite un premio quantomeno: ma chi nega che ricevere riconoscimenti è assai gradevole, mente sapendo di mentire.
Grazie, quindi. 

Recensione: Repubblica Blog

sabato, Agosto 14th, 2010

Pubblico la recensione di Manila Benedetto, apparsa nel blog di Repubblica. Fa parte della redazione di Bari. Manila è stata anche la relatrice (brava) dell’incontro di un mese fa a Polignano a Mare, dove ho passato una splendida serata anche grazie alla compagnia rutilante di Niccolò Agliardi ed Alessandro Cattelan.
Un saluto a tutti da Brno, dove non regna il vino (per quanto in crescita) ma un campionario di birre leggendarie. Tornerò in Italia mercoledì e dal giorno successivo riprenderò le mie degustazioni on line.

“Non contento del riuscitissimo “Elogio dell’invecchiamento”, Andrea Scanzi, giornalista poliedrico, torna per i tipi della Mondadori – Strade Blu con “Il vino degli altri”, un trattato ironico che mette a confronto i vini italiani con i vini stranieri.
Dalla Francia alla Toscana, dal Veneto all’Argentina, passando per Ungheria e Abruzzo, tanti sono i vini che finiscono sotto la lente di ingrandimento del giovane giornalista (classe 74), impegnato per La Stampa sui temi sportivi, culturali ed enogastronomici.
Una narrazione, però, mai banale né pesante. Quello che ci troviamo a leggere, nonostante la mole di 327 pagine, è un manuale simpaticissimo che ci aiuta ad orientarci meglio nel marasma dei vini. O forse a disorientarci meglio, facendo cadere alcune certezze (o luoghi comuni?) da cinque grappoli sulle guide.
Ed ecco la parola chiave: la guida. Dice bene Andrea, fate attenzione, guida è l’anagramma di Giuda: forse dovremmo riflettere e provare, prima di fidarci solo perché “è scritto in quella guida”.
Tra serietà e degustazioni, narrando sempre il background di ogni vino, conoscendo territorio, cantine e produttori, Andrea Scanzi si diverte con degli intermezzi che rappresentano il vero cuore del libro. Cento domande, che son le cento cose da sapere sul vino degli altri (con domanda-risposta dall’ironia travolgente, che però insegna e fa riflettere), il vino outtake, come funziona un concorso, ed il mitico capitolo “Bignami di un Consumatore Iconoclasta” dove potremo imparare come ci sono vini molto simili ad alcuni luoghi comuni della nostra società fatta di vip: il vino Jovanotti, per fare un esempio, un “vino con la zeppa, che ride sempre, soprattutto senza motivo, vinificato nell’ombelico del mondo…”, o un vino Giusyferreri che “quando lo bevi ti fa venire voglia di gargarismi”, per finire al mio preferito (sarà perché ho aperto proprio qualche giorno fa un vino che rientra nella categoria), il vino Sangiorgi quello “che non è buono se non è emaciato, sofferente e un po’ bruttino”.
“Il vino degli altri” è un libro per tutti, appassionati intenditori o neofiti della materia enologica. Un libro che fa sorridere molto e riflettere di più. Da leggere” (Manila Benedetto).

Una bellissima festa

venerdì, Giugno 11th, 2010

Non è stata una presentazione, ma una festa. Chi era mercoledì a Modena, ha avuto modo di scoprirlo.
Non ringrazierò mai abbastanza Marina della Compagnia del Taglio per la sua organizzazione incredibile. C’erano pure i gadget: il maxi-cartellone, i panini-Scanzi, le spille (“We love Scanzi“, con tanto di cuoricino, è cosa che non hanno neanche nei fan club di Drupi). Le tovagline personalizzate con la copertina de Il vino degli altri.
E poi gli ospiti, i produttori. Ci sono cascato mani e piedi. Sono arrivato a Modena e soltanto allora ho scoperto quanta gente fosse stata invitata (a mia insaputa) da Marina. Giulia Cavalleri, Angiolino Maule, Walter Massa, Ezio Cerruti, Elisabetta Foradori, Fiorini, Cavicchioli e tanti, tanti altri. Ognuno coi loro vini, il loro entusiasmo e 3 ore d’auto soltanto per venire.
Un’adesione che non mi ha soltanto commosso, ma che mi ha dato anche la convinzione che aver scritto quei due libri abbia avuto senso, perché – al di là del fortunato esito commerciale – quelle pagine hanno costituito una rottura, spero benifica e certo amata/odiata, nel paludoso e troppo spesso palloso (nonché pavido) mondo del vino.
Ringrazio quindi, una volta di più, chi ha voluto farmi questo splendido regalo (ed eravate davvero in tanti). I lettori che si sono fatti 5 ore di treno, chi mi ha fatto domande, chi mi ha esposto critiche. Chi mi ha detto di continuare così. Chi mi ha tirato le orecchie. Chi mi ha scambiato una volta di più per Alessio Boni. O anche solo chi mi ha detto grazie.
Ringrazio Cesare Turini, dirigente Heres, leader nella distribuzione vini e socio dell’azienda  Tenimenti D’Alessandro: c’era anche lui, e la sua stima garbata mi ha fatto particolarmente piacere, ancor più pensando alle polemiche (su cui hanno provato a sguazzare troppi squaletti senza più i loro oceani) seguite all’uscita del libro.
Ringrazio Ampelio Bucci, un altro che ci sarebbe stato se non fosse dovuto partire per gli Stati Uniti.
Ringrazio la bontà di vini rari, aperti a dozzina e scesi a fiumi, dal Pico di Angiolino al Sol di Ezio, dai Timorasso di Massa a quelli della Colombera, dal Granato Foradori al Rosè del Cristo Cavicchioli, dai Metodo Classico Lini (di cui presto parlerò, avendoli visitati ieri) a quelli di Bellei. Per non parlare della sequela di bottiglie aperte nella notte da Marina, fino a quasi le 4, con il botto finale di uno Champagne Taittinger Millesimato (non chiedetemi l’annata: avevo bevuto più di Bukowski e Capossela messi insieme).
E ringrazio, infine, Modena. Una città che amo e che per me sarà sempre la città di Eddy. La serata è stata presentata da Beppe Cottafavi, amico inseparabile di Edmondo Berselli. E tra il pubblico c’era Marzia, moglie di Eddy.
E’ stata una serata in cui si è chiuso un cerchio e, al contempo, il sentiero ha avuto modo di proseguire come era giusto proseguire.
Grazie a tutti voi.

Domani a Modena (9 giugno ore 19)

martedì, Giugno 8th, 2010

Domani presenterò Il vino degli altri a Modena.
All’enoteca Compagnia del Taglio, per l’esattezza (Via Taglio 12).
L’orario di inizio è previsto per le ore 19.
Ci saranno molti ospiti: giornalisti, produttori, amici.
Credo che ne nascerà una bella serata.
E magari anche un bel dibattito.
Alla fine faremo assieme un aperitivo.
Se venite, mi fa piacere.

Strane deontologie

lunedì, Maggio 3rd, 2010

In calce alla recensione (grazie) di Intravino, oggi Daniele Cernilli, direttore responsabile del Gambero Rosso, scrive (o piuttosto sentenzia): “Saranno anche preziosi gli interventi di Bea e di Maule, però Francesco Valentini mi ha telefonato imbufalito perchè. mi ha riferito, il senso delle cose che ha detto è stato completamente travisato. La stessa cosa che afferma Massimo D’Alessandro. Credo che ci saranno strascichi legali (..) Ho testimonianze dirette di quanto affermo e se questo appare “strano” a qualcuno peggio per lui. Non sono affatto compiaciuto, noto solo che, se fosse vero, non sarebbe una bella pagina dal punto di vista della deontologia professionale nè per chi ha scritto nè per chi ha riportato, prendendosi quindi le proprie responsabilità. Come è peraltro giusto che sia, ci mancherebbe (..) A me era piaciuto molto “Elogio dell’invecchiamento”, il primo libro di Scanzi, che trovo un ottimo scrittore ed una persona sicuramente competente. Mi è capitato di ricevere due telefonate da parte di due produttori che sono persone di indubbia onestà intellettuale, come Francesco Valentini e Massimo D’Alessandro, che prendevano le distanze da quanto era loro stato messo in bocca dallo Scanzi nel suo ultimo libro, e questo ho raccontato“.
Di fronte a tali affermazioni, alcune delle quali gravissime (poiché inventate o quantomeno male espresse), sono costretto a replicare. Se non l’ho fatto prima, è perché sono appena tornato da Jerez de la Frontera, dove ho seguito il motomondiale come inviato del mio giornale, La Stampa.
Come ho scritto nel libro, e poi nel mio blog, ne Il vino degli altri (che non è un libro scandalistico, ma che contiene anche pagine di giornalismo d’inchiesta) non ho fatto che riportare fedelmente le parole ascoltate da Francesco Valentini e Massimo D’Alessandro. E sottolineo parole LORO, non mie. Non sono stato io a nominare Carlo Ferrini, Brancaia, Barilla, eccetera. E sono stati loro – in entrambi i casi – a calcare la mano su certi aspetti “forti”.  Non io. Non li ho certo obbligati. Non cercavo minimamente alcuno scoop, e se anche lo avessi cercato, non sarei andato a bussare alla porta di una persona pacata e misurata come il Professor D’Alessandro.
Ho nuovamente parlato con Francesco Valentini dopo l’uscita del libro. Sarà stato il 13-15 aprile. L’ho fatto subito, oltremodo stupito dalla sua insoddisfazione (comunicatami da Maule). Non volevo crederci, ma era vero. Valentini si è lamentato di come non abbia riportato integralmente l’ora e più di dialogo (cioè di non avergli dedicato ottanta pagine), in particolare i passaggi su Barilla, grano radioattivo e olio Carapelli, che secondo lui ho “tagliato” male. Non condivido, ma ne prendo atto. Valentini ha anche chiesto di togliere, nelle prossime edizioni, alcuni passaggi. Non è cosa che mi esalti, ma se lo preferisce, è quel che farò. Lui sa benissimo che non ho travisato NIENTE. Come sa benissimo che a dargli fastidio sono state soprattutto altre cose (ad esempio le parole – pur affettuose e deferenti – di Maule sul padre di Francesco, Edoardo: pag 165-6). E’ stata comunque una chiacchierata serena (quella fatta dopo il libro, intendo), anche se ho trovato deludente il comportamento di Valentini. Soltanto lui non si è reso conto di come il suo sia uno dei capitoli più toccanti. Un incontro bellissimo. E tale per me resterà. Ho adorato, quel pomeriggio a Loreto Aprutino (nonostante i disastri del navigatore), Valentini e sua moglie. Anche se – consentimelo, Francesco – questa parziale retromarcia, per uno che dice di lottare e combattere, non è un bel vedere. Mette un po’ tristezza, ecco. E te lo dico con immutato rispetto. Non ti credevo parte attiva dei “coraggiosi a microfoni spenti” e spero ancora di sbagliarmi.
Riguardo a D’Alessandro, ho riportato le parole esatte da lui usate, all’interno di un capitolo intero (positivo) a lui dedicato. Ho riparlato con il professor D’Alessandro adesso (3 maggio 2010, ore 20) al telefono e smentisco categoricamente, nella maniera più assoluta, le parole di Cernilli. D’Alessandro non ha mai, e dico MAI, detto a Cernilli che ho inventato o travisato tutto. Al telefono mi ha bensì detto – con risentimento, questo sì – che tutte quelle cose le ha effettivamente pronunciate (compresi i dettagli, come quello del “fornitore abruzzese”) ma che è stato “ingenuo” e “pollo” (riporto anche qui fedelmente i virgolettati) nel riferirle a un giornalista, e che sperava – pur non avendomelo chiesto – che non avrei scritto proprio tutto. Ha poi detto che il tono di alcuni suoi giudizi, ad esempio sui Syrah di alcuni colleghi (Macchiole, Isole e Olena) appare nel libro più forte e stentoreo (“Le mie erano solo battute sui vini di persone amiche”). Trovo giusto riportarlo anche qui.
In questo senso D’Alessandro, che come Valentini non ha alcuna intenzione di adire vie legali (di cosa?), ha mandato lettere di scuse ai diretti interessati (Brancaia etc), sostenendo di essere stato “ingenuo” e “usato”. MAI però ha scritto che io mi sono inventato tutto o che ho travisato. Men che meno – e lo sottolineo: men che meno – riguardo alle sue parole di pagina 131. E’ una calunnia totale e diffido Cernilli e le sue ligie adepte dall’insistere su tale china, passibile – questa sì – di vie legali. Chissà che non sia io a querelare qualcuno, a questo punto. E non viceversa.  
Da quando è diventato un reato intervistare una persona e trascrivere (asetticamente) quanto dicono, anche se quello che dicono è scomodo? A che punto siamo arrivati in questo paese, esimio Cernilli? E’ grave che io abbia riportato il virgolettato di una intervista o piuttosto che SOLO adesso un’azienda lodata e titolata racconti come il Brancaia Tre venga fatto? Può rispondermi, esimio Cernilli? Può rispondere anche e soprattutto ai lettori, ai consumatori? Magari, se ha difficoltà, chieda aiuto alla amena Lady Guerini, la giornalista più premiata dagli Antinori e Frescobaldi. Vedo che, quando c’è da far difese corporative, certi “critici integerrimi” son subito scattanti a correre in soccorso del vincitore.
E’ vero invece (non lo nego affatto) che sia D’Alessandro che Valentini si sono sentiti delusi dal mio comportamento (umano, non giornalistico). Ritengono che, pur  non avendo inventato NULLA, e ribadisco NULLA, li abbia “usati” per fare lo scoop. Prendo atto anche di questo, ma non condivido. E continuo a stimarli. Anche se tale accusa, fatta da persone per cui ho grande ammirazione, mi offende. E rimango ferocemente dell’idea – rispettosa opinione personale – che la loro sia “paura tardiva”, del tipo accidenti mi sono lasciato prendere la mano dalla conversazione e ho parlato troppo, dicendo cose che tutti sanno ma che era meglio non dire.
Specifico che nessuno degli intervistati mi ha chiesto, prima della pubblicazione, di leggere il capitolo. Nessuno. In 13 anni di giornalismo, del resto, me l’hanno chiesto solo Bruno Vespa, Giovanni Floris, Maurizio Costanzo, Gene Gnocchi e Michele Santoro (potete chiederglielo). E’ un’eccezione,  non la regola. E deve essere l’intervistato a chiederlo: non viceversa.
Non parliamo quindi a sproposito, anzi calunniosamente, di deontologia o invenzioni: io ho riportato correttamente le parole che mi sono state dette. Quello che dovrebbe fare un giornalista (libero). Se poi alcuni intervistati, del tutto legittimamente, ma a mio avviso poco coerentemente, si sono pentiti di ciò che hanno affermato una volta trovate le loro parole su pagina (e su pagina la parola appare più forte), è altro discorso.
Un giornalista fa interviste e riporta quello che un intervistato dice. E ogni tanto “prova a far tana”. E’ una vecchia regola del giornalismo: quello vero, almeno. L’intervista, una volta uscita, non deve necessariamente piacere all’intervistato. E’ la differenza che passa tra giornalista e addetto stampa (capito, ghenga del Gambero Rosso?).
E’ affascinante come l’esimio Cernilli e i “garantisti”, col consueto approccio cattedratico e sentenziante, con questa eterna sicumera di chi dall’alto scomunica il “gggiovane” parvenu che ha osato aver successo in un mondo di bacucchi, stiano spostando l’attenzione dal fatto in sé: ovvero che le parole (vere) di D’Alessandro (non mie) sono state confermate dai diretti interessati, almeno nei punti chiave (inchiesta esistente su vini taroccati, coinvolgimento di Carlo Ferrini – di cui forse l’esimio Cernilli è grande amico -, bottiglie bloccate a Brancaia). E’ questo l’aspetto fondamentale. Questo. Questo e il rispetto per le parole degli intervistati, per le persone implicate e per il lavoro della magistratura: tutte cose mai venute meno. Stiamo parlando di una inchiesta. Non di sentenze.
In Italia ormai non si contesta il giornalista connivente, ma quello che ha l’impudenza di riportare  (integralmente) i passaggi più spinosi di una intervista. Questa, esimio Cernilli (contro cui personalmente non ho nulla, cit), è forse la “deontologia professionale” deprecabile.
Un’ultima cosa: non vorrei che l’astio, e la pervicace difesa dello status quo, esibiti dall’esimio Cernilli derivino in realtà da urgenze personali.  Da una certa permalosite. Dal fatto, ad esempio, che nel libro venga dato spazio a molti vignerons scomodi, poco graditi da Gambero Rosso. Che si ricordi minuziosamente il caso Report, da cui Gambero Rosso uscì malino. E che alcuni di questi vignerons, come Angiolino Maule, raccontino (anche sull’esimio Cernilli) aneddoti non proprio edificanti.
Oppure Lucifero Scanzi ha circuito anche Maule, coi suoi fatali occhioni blu?
Mi riferisco, visto che siamo in vena di citazioni dal libro, a questo passaggio. Giusto per dirne uno. Pag. 168-69. Parla Maule. “Avevo il mito del Gambero Rosso, ma l’ho perso presto“. Una volta Maule ha vinto un Tre Bicchieri. “La premiazione, a Torino, fu asettica e triste. Direi proprio sciatta (..) Per il Veneto, come sempre, c’era anche Anselmi. Lo premierebbe sempre, anche se dentro una bottiglia ci mettesse la pipì. Proprio Anselmi, prima di essere premiato, telefonò davanti a tutti noi, platealmente, a Daniele Cernilli. Cernilli era sul palco e rispose al cellulare, come se il pubblico non esistesse. Anselmi non doveva dirgli nulla di urgente, lo fece solo per far vedere che erano amici. Usò un pretesto, mi pare l’avvenenza di una ragazza sul palco. Non fu una grande esperienza. Oltretutto era appena andato in onda il servizio di Report sui vini industriali e le guide asservite“. Tale aneddoto è stato smentito da Cernilli e Anselmi.
Mi perdoni, esimio Cernilli, se quando avverto l’urgenza di saperne di più sulla deontologia professionale, o addirittura inseguo maestri, telefono a Gianni Mura o rileggo Edmondo Berselli. Non certo lei.

P.S. Alcuni lettori mi contestano i refusi. Avete ragione. Del tutto. Li correggeremo.

Lady Sfuso e il pattume

domenica, Maggio 2nd, 2010

Un lettore, Michele Malavasi, mi ha segnalato l’articolo di una blogger, non esattamente affettuoso, a me dedicato. E’ di tale Eleonora Guerini, che ovviamente non conosco, ma che dal tenore della sua replica (non si sa bene a che cosa) appartiene verosimilmente alla pletora di addetti ai lavori che se la suonano e se la cantano. Quelli che se la presero per l’ironia leggera di Elogio dell’invecchiamento nei confronti dei sommelier-tromboni (ah, lesa maestà). Quelli che, se li leggi, diventi astemio e sugli esperti-di-vino la pensi come Antonio Albanese in quel monumentale sketch.
Non è una piccola categoria: per coloro che, con toni caricaturalmente autoreferenziali, credevano di essere depositari del Verbo di Enolandia, il successo di un cazzaro (cit) come me, per giunta addetto ai lavori di straforo (nel senso che solitamente mi occupo d’altro), è stato un colpo inferto al cuore. Da cui non si riprenderanno mai. Mi ricorda i vecchi americani incartapecoriti quando gli arrivò in faccia la beat generation. Loro scomunicavano, e nel frattempo il loro mondo non c’era già più (sveglia, Eleonor Rigby: time is not on your side).
In questo senso, Eleonora Guerini assurge pienamente a ciò che io definisco marker al contrario, come Filippo Facci in politica: se loro scrivono una cosa, e tu non la condividi, allora puoi stare tranquillo. E gridare anche C’mon.
Va da sé che, se mi mettessi a replicare a tutti quelli che ce l’hanno con me, non solo farei notte, ma avrei pure l’impudenza di rendere mediamente celebri giornalisti frustrati e opinion maker conniventi.
Perché, allora, questo post? A) Perché sono uno zuzzurellone. B) Perché adoro commentare gli spifferi. c) Perché lo scritto di Eleonora Guerini è emblematico (e vedrete a breve di cosa).
Tale Guerini, con hybris invero notevole (persino superiore alla mia), si firma – in un blog gamberorossiano frequentato come le conferenze stampa di Tabacci alle tre del mattino – “Lady Wine”. Mica niente: Lady Wine. La Signora e Sultana del Vino. Sticazzi e oibò. Mi pare un po’ troppo. Urge una diminutio. Chiamiamola, qui, Lady Sfuso (ed è un nomignolo affettuoso: avessi inseguito la cattiveria, avrei tolto la prima “s” e declinato il participio al femminile).
Perché Lady Sfuso ce l’ha con me? Per la solita pagina 131 (chepppalle). Lei ha letto solo quella pagina, e non benissimo, ma le è stato sufficiente per far tuonare le trombe del giudizio universale contro me e il “giornalismo taroccato”. Daje.
Fin dalle prime battute, Lady Sfuso ci fa capire con indicibile arguzia che lei è donna molto impegnata (“solo oggi sono in grado di rispondere”) e  conosce – come nessun altro – i produttori. Per questo li difende. Anzitutto quelli di Brancaia, che chiama per nome (“Barbara Widmer, proprietaria insieme a Martin“).
In quanto conoscitrice, anzi amica, di tutti i produttori, Ella li tutela. A prescindere, per Dna. E’ la difesa corporativa di un sistema che dà a tanti da bere e da mangiare, ladies and gentlemen. Il suo sembra (sembra: magari sbaglio io) l’articolo di Nicola Porro dopo un editoriale di Marco Travaglio che parla di una inchiesta (reale) su Silvio Berlusconi. La sempiterna difesa d’ufficio, non richiesta e con poche idee (ma fieramente confuse).
Si faccia ora una seria esegesi del pensiero – in dieci punti – di Lady Sfuso. Ascoltiamola.

1) “Immagino che questo libro (il mio, NdA) riscuota i favori di tutti gli intransigenti del vino, quelli per cui esistono SOLO Poggio di Sotto e Bruno Giacosa”.
Lady Sfuso esordisce con cipiglio, insultando tutti i lettori del libro (ma va capita: non avendo pubblico, non sa di cosa parla), reputandoli dei bacucconi integralisti che si eccitano con Porthos e bevono solo Joly. Il fatto che Il vino degli altri sia un libro tutt’altro che “cattivo” o “scandalistico”, bensì passionale e ironico, e che tali ironie vadano a toccare pure i “vinoveristi”, chiaramente per Lady Sfuso è irrilevante. Come lo è il mio continuo sottolineare che “il vino migliore non esiste”, che la Toscana NON è  solo quella degli scandali e che non esistono certezze inconfutabili.

2) “Quello che è accaduto tra Scanzi e D’Alessandro è, dal mio modesto punto di vista, pattume giornalistico”. Brrrrr: che impeto, che verve, che grinta. Lady Sfuso va alla guerra: facce sogna’. Perché pattume, altra parola (desueta) tipica di certi editoriali “garantisti”? Ce lo spiega subito. Ascoltiamola ancora: “Conosco troppo bene il professor D’Alessandro (per forza, lei conosce TUTTI), la sua modestia, la sua colta sensibilità, la sua raffinata e non codarda predilezione per le sfumature per crederlo capace, anche solo per un secondo, di certi toni. E penso che la sua fanciullesca ingenuità sia stata predata dal buon Scanzi (grazie del buon) che, le sue orecchie forse non credevano a quel che sentivano! (più che altro non credo a una sintassi così pietosa e raggelante), non cercando la verità ma lo scoop stava facendo bingo (bastardo che non sono altro)“. 

3) Quindi mi sono inventato tutto, Lady Sfuso? Oppure ho letto nel pensiero? “Intendiamoci io non credo che Scanzi si sia inventato tutto (meno male, va’. Ero in pensiero). Però credo che abbia molto enfatizzato, calcato i toni, facendo apparire D’Alessandro come uno convinto che al mondo ci siano solo il bianco o il nero, i buoni e i cattivi e che lui, dall’alto della sua Cortona, sta lì a dispensare giudizi”. 
Tale intemerata sgangherata presta se non altro il fianco (?) a una specifica. Il punto non è inseguire il plauso di Lady Sfuso (faccio il giornalista da 13 anni e avrei altri punti di riferimento). Lady Sfuso, come tutte le addette ai lavori dotate di straordinario equilibrismo, temono sempre che qualcuno smascheri coperchi indesiderati. Problema suo.
Il punto vero è: D’Alessandro. Secondo la lettura di Lady Sfuso, io sarei stato il Demone Tentatore e lui, in poche parole, un mezzo tontolone. Non mi lusinghi così tanto, Lady Sfuso (e non sia così dozzinale col professor D’Alessandro). Lei ha ragione solo su un punto: è stato un discorso “a ruota libera”. Davvero. Due ore, registrate, all’ora di pranzo. Nel suo studio romano dietro il carcere di Rebibbia. Una chiacchierata tranquilla e serena, come si evince dal capitolo intero a lui dedicato.
Se si legge solo pagina 131, si ha (forse) l’idea di lui come di un manicheo. Affatto. Non solo: io non stavo minimamente cercando lo scoop, ma solo la risposta italiana ai Syrah del Rodano. Non ci pensavo neanche alle inchieste. Per questo, come scrivo chiaramente a pagina 131, la sua “bordata” è arrivata del tutto inattesa. E’ stato D’Alessandro a dirla, non costretto a forza ma spinto – col consueto garbo – da una sua urgenza, appena titillata da una domanda innocua (il suo rapporto di lavoro interrotto con Stefano Chioccioli). Io mi sono limitato, a quel punto, a riportare fedelmente le sue parole. Senza enfatizzarle affatto (anzi). Casomai le hanno enfatizzate (e li capisco) i blogger che lo hanno estratto dal contesto (decisivo) del libro.
In altre parole (e non ci faccio un figurone eroico): lo scoop è merito suo. Io, quel giorno, non lo inseguivo affatto. Né potevo “inventarlo”, non essendo a conoscenza di quanto affermato (dettagli inclusi) dall’intervistato.

4) La cosa affascinante (l’unica, forse) delle reazioni dei più realisti del re è come distolgano l’attenzione dal fatto in sé.  Ovvero: non è importante cosa D’Alessandro abbia detto, e se poi esso sia risultato vero, ma “come” lo abbia detto. Traduco per Lady Sfuso. D’Alessandro (non io) ha detto tre cose. 1) Che esisteva una inchiesta sui vini toscani taroccati. 2) Che questa inchiesta riguardava anche Carlo Ferrini. 3) Che alcune bottiglie di Brancaia sono state sequestrate. Questi tre punti sono stati tutti confermati, non da me ma dai diretti interessati (Ferrini e Brancaia). Capisco che fare giornalismo in Italia sia desueto, ma dovrebbe funzionare così. Se poi D’Alessandro lo abbia detto piangendo (no) o dispiaciuto (sì), è aspetto secondario.

5) “Lui, dall’alto della sua Cortona, sta lì a dispensare giudizi”.  Non so D’Alessandro, ma è esattamente quello che faccio ogni giorno. Organizzo apocalissi e giudizi universali, usando le mie labrador come emissari celesti. I buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Le Lady Sfuso nel mezzo. Sempre nel mezzo.

6) “Io credo invece che abbia parlato a ruota libera, probabilmente condividendo preoccupazione, sicuramente non condividendo le pratiche mescolative del mondo del vino italiano, certamente senza quell’arroganza che molti sembrano mostrare sempre più tra critici e produttori”. E’ verissimo. Infatti, chi legge tutto il libro, se ne rende chiaramente conto. Lady Sfuso ha appena rivelato al mondo ciò che il mondo già sapeva. Complimenti per la guittezza.

7) “Faccio un esempio (go Lady Sfuso go). La frase: penso a Barbara Widmer, dell’azienda Brancaia, pure a lei hanno sequestrato del vino (la frase non è così nel libro, e anche questo dimostra quanto Lady Sfuso abbia letto con attenzione pagina 131). Pensiamoci un po’, uno la può dire con le lacrime agli occhi (notate: Lady Sfuso non c’era, ma – conoscendo D’Alessandro e l’umano mondo come nessuno – pretende di saperne più di chi c’era, addirittura interpretando i toni di voce e la prossemica dell’intervistato: i-d-o-l-o); con un tono sommesso (no), preoccupato (), dispiaciuto (verissimo: e dal libro si capisce), magari riconoscendo così il gran lavoro che, vino comprato o meno, uno sa che in quell’azienda si fa; con disprezzo e compiacimento, come a dire le sta proprio bene a quella… (anche questa frase è scritta con punteggiatura e significati random: mi stupisco di come Lady Sfuso non abbia ancora scritto libri sul vino. Sarebbero piacevoli scorribande nel dadaismo). Insomma, lo sappiamo tutti (ma anche no). Il significato di una frase non sta solo nelle parole”. Certo, Lady Sfuso: sta anche nella manipolazione che se ne fa, a proprio piacimento e per interesse personale. Ciò che ha appena fatto. 

8 ) “Detto questo un po’ mi dispiace anche per la questione Brancaia in sé. E’ un vino questo che a me è sempre piaciuto”. Toh, ma va’? Davvero? E che magari ci sia questo, l’amicizia unita a interessi personali (gelosia, fastidio, imbarazzo) dietro tale filippica sgangherata? Per la cronaca, giova ricordare come anche il Dottor D’Alessandro sia amico di Brancaia (come scrivo nel libro). Essere amici non equivale necessariamente a un comportamento ispirato alle arcinote scimmiette.

9) “Ora quello che dicono i Widmer è sacrosanto e corretto (Tavole della Bibbia, oserei dire): l’acquisto di vino sfuso è consentito (mai scritto il contrario). Lo è per le denominazioni così come per gli igt. I produttori sostengono che viene usato solo per la produzione di Brancaia Tre, il vino di pronta beva che raccoglie il vino non utilizzato per la produzione del top di gamma. Il che non solo non costituisce reato ma è anche comprensibile”.
Detto che NESSUNO ha mai detto che è reato, e che il libro non formula sentenze di colpevolezza ma informa (correttamente) i consumatori di una inchiesta, rimando all’analisi di Francesco Arrigoni (Corriere della Sera) e al mio precedente post sulle perplessità della replica di Brancaia. Non ultime, il fatto che l’etichetta non parli di vino sfuso e (ancor più) che tale ammissione sia arrivata obtorto collo, per costrizione. E la “costrizione” era il mio libro, in cui si alludeva a un fatto (bottiglie bloccate/sequestrate) confermato da Brancaia stessa.
Ci sta ancora ascoltando, Lady Sfuso? E’ comodo il pero da cui non è ancora caduta?

10) “Ma purtroppo siamo in Italia, dove tutto si fa e niente si dice. Dove da troppo tempo – un paio di millenni???? (ha fatto la battuta: ridete) – siamo abituati al fatto che quanto ci viene propinato, nel vino, nel cibo, in politica, nell’impresa, spesso non corrisponde poi allo stato delle cose”. 
Saggio di equilibrismo monumentale, quest’ultimo. Genere “fingo di dire qualcosa ma in realtà non mi sbilancio”. In queste cose (almeno in queste), le Lady Sfuso sono insuperabili.

In estrema sintesi: è vero o non è vero che esiste l’inchiesta a cui allude D’Alessandro? E’ vero o non è vero che riguarda anche Ferrini e Brancaia? E’ vero o non è vero che le parole di D’Alessandro si sono rivelate puntuali e credibili? E vero o non è vero che queste cose, e nemmeno qualcosa di minimamente vicino, si è mai letto nel suo blog epocale? E’ vero o non è vero che il libro ribadisce più volte la presunzione d’innocenza?
Non tergiversi o sposti l’attenzione, Lady Sfuso. Questo e solo questo è il punto.
E infine: solo perché una persona ha scritto un libro (anzi due) al suo posto, avendo l’ulteriore colpa di un certo successo, e avendo pure l’ardire di svelare inghippi non esattamente edificanti (che mai pare aver sentito l’impulso di rivelare): solo per tutto questo, c’era bisogno di esporsi così pervicacemente al pubblico ludibrio, vergando un tale exemplum di acquiescenza critica?
Mi stia bene, assai gentile signora, e (non) continui così.

P.S. E ora scusatemi, ma devo organizzare il Giudizio Universale di stasera.

P.P.S. Nell’ultima foto, Eleonora Guerini è premiata come “miglior giornalista” dai noti produttori alternativi Piero Antinori e Lamberto Frescobaldi. Tutto si tiene (cit).

La replica di Carlo Ferrini (e del suo avvocato)

martedì, Aprile 27th, 2010

Il bravo Francesco Arrigoni, nel suo blog sul Corriere della Sera, ha intercettato Carlo Ferrini e il suo avvocato Bernardo Losappio (lo stesso dell’azienda Banfi) dopo avere letto la pagina 131 de Il Vino degli altri.
Arrigoni voleva accertarsi di quanto fossero vere le parole di Massimo D’Alessandro sulla vicenda. Mi pare che abbia scoperto – ancor più dopo la replica di Brancaia – che non fossero invenzioni. Non lo affermo io ma l’avvocato Losappio: “Ferrini è oggetto di indagine della Procura di Siena per una faccenda che riguarda la presunta contraffazione di vini IGT Toscana” (cito Arrigoni). E lo stesso Ferrini (“due anni fa era stato sentito come persona informata sui fatti per la vicenda del Brunello e oggetto, allora di un avviso di garanzia, e di essere ancora nell’ambito un’inchiesta”, riporta Arrigoni).
Mi piace riportare integralmente il post, ricordando una volta di più che – a pagina 132 – ribadisco di credere nella presunzione di innocenza e di non avere mai parlato di sentenze definitive o colpe accertate (“La giustizia farà il suo corso, non entro nel merito e non arrivo a conclusioni, mi limito a riportare quel che so”, così D’Alessandro; “A prescindere dalle implicazioni giuridiche, dalle persone direttamente coinvolte. Tutti, fino a prova contraria, sono innocenti”, così io).
Ho solo riportato un fatto rivelatomi da un intervistato: l’esistenza di una inchiesta. Anzi, di più di una (e non sono io a rivelarlo). In altre parole: ho solo dato una notizia ai lettori. Che è esattamente ciò che fa (o dovrebbe fare) un giornalista. Mai scritto “Ferrini è colpevole” o simili. Non sono un pazzo.
Ribadisco anche di avere riportato le parole (si direbbe ampiamente fondate) di un affermato produttore, non le mie opinioni o i pettegolezzi del circondario.
Qualora Carlo Ferrini o il suo avvocato volessero dare dettagliatamente la loro versione dei fatti, sarà mia premura pubblicarla integralmente su questo spazio.
Ecco il post del 22 aprile di Francesco Arrigoni.

Avviso di garanzia a Carlo Ferrini, uno dei più famosi enologi italiani, per una faccenda di un vino toscano fatto con vino abruzzese. Così avevo sentito dire un mese fa. Ma non ho voluto crederci, pensavo che fosse una delle tante voci maligne che circolano nell’ambiente del vino, alle quali nella mia carriera non ho mai detto retta perché altrimenti ogni giorno dovrei occuparmi di fatti che il più delle volte si rivelano una bufala. A maggior rgaione non ho dato peso alla cosa perché a riferirmi la notizia era un altro enologo concorrente di Ferrini.
Ora però la notizia sarebbe non solo confermata, ma aggravata. L’ha scritta Andrea Scanzi nel suo ultimo libro “Il vino degli altri” (ne ho avuto notizia grazie al blog  
Vino al Vino di Franco Ziliani e ora anche grazie a Scanzi che pubblica nel suo blog la pagina di quel libro (vedi qui) dove Scanzi riferisce le parole di un produttore di Cortona.
“E’ molto più di una inchiesta. In breve si è scoperto – secondo l’accusa – che un grande enologo, Carlo Ferrini, faceva vino in Toscana utilizzando vino proveniente da altre regioni….”
Prima di tutto va detto che questa non è una frase tratta dal blog dell’ultimo provocatore, ma da un libro e un libro non è un articolo di giornale, scritto da Scanzi che è un bravo giornalista e certo non uno sprovveduto.
Qui però si parla di un’accusa che sarebbe stata accertata e getta una pessima luce su Ferrini, insieme a gravissime considerazioni sul vino toscano.
Però prima di proseguire ho voluto sentire il diretto interessato Carlo Ferrini. Il quale mi dice di essere stupito e amareggiato della cosa. Mi dice che il suo nome insieme a quello di altri è stato trovato in un elenco ritrovato in una delle cantine indagate per l’ultima vicenda del vino toscano contraffatto (di cui aveva parlato Zaia all’inaugurazione del Vinitaly) e che poi mani misteriose si sono premurate a spedirlo a tutte le migliori cantine toscane. Però anche mi comunica anche che due anni fa era stato sentito come persona informata sui fatti per la vicenda del Brunello e oggetto, allora di un avviso di garanzia, e di essere ancora nell’ambito un’inchiesta.
Ora sappiamo tutti che ricevere un avviso di garanzia non significa automaticamente avere una condanna a carico. Però certo non è una bella notizia né per l’interessato né per il settore del vino.
Più tardi mi ha raggiunto telefonicamente l’avvocato di Ferrini, Bernardo Losapio, del Foro di Siena che ha meglio precisato. Cioè che Ferrini è oggetto di indagine della Procura di Siena per una faccenda che riguarda la presunta contraffazione di vini IGT Toscana. Ferrini nella sua attività di enologo per alcune delle più importanti aziende vitivinicole toscane, che non solo producono vino ma ne acquistano, riceve dei campioni di vini, vini che poi utilizza per la realizzazione di alcuni vini. Secondo la Procura di Siena alcuni di questi vini pervenuti a Ferrini non proverrebbero dalla Toscana (ma la cosa sarebbe ancora da provare analiticamente). Ferrini quindi sarebbe attore inconsapevole della faccenda. L’avvocato Losapio ha annunciato che si riserva (dice che si riserva non che certamente farà) di dare querela a Scanzi per quanto riferito nel libro e per la violazione del segreto istruttorio.  Quindi la vicenda non è ancora ben definita e le responsabilità da accertare. Ritengo sia bene attendere si celebri un processo e attendere una sentenza prima di trarre conclusioni che potrebbero essere gravissime.

La replica di Brancaia (e poi la mia)

sabato, Aprile 24th, 2010

Ho appena saputo di aver vinto il Premio Durruti 2010. Il libro è partito bene: piace, si vende, fa parlare. Stasera farò di nuovo la pasta in casa, toccando una volta di più con mano il potere terapeutico e catartico della cucina.
Va tutto bene. Ed è proprio in questi casi che arriva qualcosa a disturbarti il quasi-Nirvana. Funziona così, occorre far media.
Franco Ziliani ha pubblicato – nel suo blog Vino al Vino – la replica dell’azienda di Brancaia al mio libro. Cioè, no: all’unica pagina che (forse) hanno letto.
La pubblico anch’io. E poi, con la consueta dovizia, la commento.
Brancaia scrive:

A causa di una pubblicazione del giornalista Andrea Scanzi questa settimana, ci sentiamo obbligati a fare una comunicazione formale.
Da molti anni lavoriamo con passione e con tanta energia per produrre il miglior vino possibile dal nostro terroir – con il massimo rispetto per tutte le risorse della natura e con una dedizione totale da parte del nostro team. Produciamo tre vini di punta: Brancaia IL BLU (IGT), Brancaia Chianti Classico (DOCG) e ILATRAIA (IGT).
Per questi vini utilizziamo soltanto uve prodotte nei nostri vigneti – provenienti dai 25 ettari vitati della nostra proprietà nel Chianti Classico e dai 40 ettari vitati della nostra proprietà in Maremma.
Il nostro vino di pronta beva, Brancaia TRE (IGT), comprende tutte le uve che non possono essere selezionate per i nostri vini di punta.
Visto il successo e la richiesta di Brancaia TRE, in aggiunta alle uve di nostra produzione, da qualche tempo acquistiamo uve e vino sfuso (entrambi a IGT Toscana). Questo non è un segreto e decisamente non è un reato.
Ecco i fatti:
– Due commercianti toscani di vini sfusi sono indagati per aver venduto vini con falsa documentazione (frode).
– Di conseguenza, tutti i vini sfusi, anche già ceduti a produttori, sono stati bloccati.
– Poiché avevamo acquistato in buona fede da questi commercianti, il vino che è stato utilizzato per Brancaia TRE è stato bloccato.
– Durante i controlli abbiamo esibito tutti i documenti richiesti e risposto a tutte le domande.
– Al termine dei controlli, Brancaia TRE è stato sbloccato.
– Acquistiamo solo una piccola quantità di vino sfuso e solo per Brancaia TRE.
– La selezione di uve acquistate e di vino sfuso è prevista dalla legge e basata su alti standard qualitativi.
– Tutti gli altri nostri vini sono fatti solo con uve di nostra produzione. Riteniamo di esserci comportati sempre correttamente e chiaramente rifiutiamo le affermazioni di Massimo D’Alessandro così come riportate da Andrea Scanzi.
In ordine a tali affermazioni, peraltro, ci riserviamo di tutelare il nostro buon nome e la nostra professionalità in tutte le sedi competenti.
Barbara e Martin Kronenberg Widmer

Ringrazio i signori Widmer per l’attenzione (per interposta persona, visto che a me non è stato spedito nulla). Mi preme però dirgli subito che tale replica è del tutto pleonastica, al di là di una media piacevolezza dello scritto, ribadendo in tutto quello che ho riportato nel libro (in merito a Brancaia, almeno) e confutando al tempo stesso tutto ciò che nel libro non c’è scritto.
Nel caso migliore è la classica smentita che non smentisce, in quello meno desiderabile un esempio (l’ennesimo) di toppa peggio del buco.
Ricordando ai coniugi Widmer, cognome curiosamente vicino all’ineffabile Charles Widmore di Lost, che “la pubblicazione del giornalista Andrea Scanzi” è in realtà un libro, Il vino degli altri, edito da Mondadori (non da Scaramacai), uscito non “questa settimana” ma il 6 aprile e ideale seguito del bestseller Elogio dell’invecchiamento, desidero rimembrar loro che nell’unica pagina che (forse) hanno letto o sbirciato, non faccio che riportare  i commenti del produttore Massimo D’Alessandro (peraltro amico dei coniugi Widmer).
In tali commenti, a pagina 131, D’Alessandro non lancia accuse o dà sentenze, ma informa me e i lettori di una inchiesta che riguarda anche l’enologo Carlo Ferrini (della cui consulenza si avvale Brancaia).
Nello specifico, e sintetizzando, D’Alessandro dice che: 1) esiste un’inchiesta atta ad accertare irregolarità nella fattura di alcuni vini toscani; 2) alcuni commercianti sono sotto inchiesta per frode; 3) alcune bottiglie sono state sequestrate.
Tali punti, in toto, vengono confermati dai coniugi Widmer nella loro replica.
Il libro nomina Brancaia solo in un passaggio: “Sono stati fatti sequestri ovunque (parla D’Alessandro). Sono amico di Brancaia, mi hanno detto che da loro hanno sequestrato 75mila bottiglie già vendute agli americani”. Fine. Su Brancaia non c’è altro. E sottolineo null’altro. Non ho mai scritto (né D’Alessandro mai detto) che l’azienda Brancaia fosse giuridicamente colpevole o non innocente.
Tali parole vengono appunto confermate dai coniugi Widmer: “Due commercianti toscani di vini sfusi sono indagati per aver venduto vini con falsa documentazione (frode). – Di conseguenza, tutti i vini sfusi, anche già ceduti a produttori, sono stati bloccati. – Poiché avevamo acquistato in buona fede da questi commercianti, il vino che è stato utilizzato per Brancaia TRE è stato bloccato“.
Appunto. Quindi: 1) esiste un’inchiesta; 2) l’inchiesta parla di vini toscani contraffatti; 3) l’inchiesta ha riguardato e/o riguarda (anche) Carlo Ferrini e l’azienda Brancaia.
Appunto.
L’unica differenza è nel chiamare “bloccate” delle bottiglie “sequestrate”. Questione di semantica. O di scaltrezza.
Non ho mai scritto, né D’Alessandro ha mai detto, che tali bottiglie sono state buttate al macero o distrutte.
Prendo comunque atto di tale smentita, nella quale peraltro si ammette candidamente di acquistare disinvoltamente (“in buona fede”, ovvio) del vino sfuso proveniente dall’esterno dell’azienda. Una bella notizia per i consumatori (e peraltro a buon mercato).
Un’ultima cosa. I libri, gentili coniugi Widmer, constano di molte pagine. Non solo di una. Se aveste avuto la bontà e la pazienza di leggerlo tutto, o anche solo il capitolo che incidentalmente cita la vostra gloriosa nonché sommamente stentorea azienza, avreste potuto leggere come finisce il passaggio.
Lo scrivo qui, a vostro (e non solo vostro) uso e consumo:
“E’ anche per queste parole, caro Gigi Garanzini, cari amici lettori, che mi sento un toscano apolide. A prescindere dalle implicazioni giuridiche, dalle persone direttamente coinvolte. Tutti, fino a prova contraria, sono innocenti“.
E più avanti, dopo aver parlato di Carlo Ferrini e di una sua intervista alla rivista Sommelier Toscana, chiudo così: “Massimo rispetto (per Ferrini e le sue aziende, NdA), ma mi permetto di guardare altrove. Come, se non ho capito male, guarda altrove Massimo D’Alessandro”.

Se non vi crea troppo dispiacere, gentile famiglia Widmer, permetta che “il giornalista Andrea Scanzi” abbia l’ardire e professi l’eresia di guardare altrove. Ancor più dopo questa vostra replica.

Il vino degli altri: l’anticipazione

sabato, Aprile 3rd, 2010

La Stampa anticipa oggi a tutta pagina Il vino degli altri (Mondadori), il mio nuovo libro, in uscita martedì prossimo 6 aprile.
Ecco l’estratto. Da oggi a giovedì sarò in ferie (e magari inseguito da Emilio Fede), ci sentiamo al mio rientro.
Un abbraccio.

(..) Perda Rubia è una di quelle cose che ti capitano per caso (..). Come i Malbec d’Argentina, nasce da viti a piede franco. (..) Per questo si parla del Perda Rubia come ultimo dei Cannonau. Il solo capace di raccontare un gusto, una storia e una matrice organolettica che facciano tornare indietro alla notte dei tempi.

    (..) In questa landa povera dell’Ogliastra era passato anche Mario Soldati. Vino al vino, terzo viaggio, 1976. C’era ancora il fondatore dell’azienda, Mario Mereu. “ (..) Il suo vino è un Cannonau, lui lo ha battezzato Perda Rubia, corruzione del sardo Perda Arrubia: cioè pietra rossa. Nel libro di sir Cyril trovo un grande elogio: ‘Perla Rubia, a particularly fine example of Cannonau”. Malgrado la svista del proto, si potrebbe dire davvero che si tratta di una Perla”.
     (..) L’azienda agraria si trova nella provincia dell’Ogliastra, tra i comuni di Cardedu, Taluna e Baunei. Nel sito internet, il Perda Rubia non è solo l’ultimo dei Cannonau: è anche il vino “dedicato a chi non ha ancora il telefonino”. Proprio come chi, oggi, il Perda Rubia lo fa.  Renato Mereu, figlio di Mario.
     Capelli corti, brizzolati. Fisico asciutto, voce sicura, piccola inflessione sarda. Passione genuina. Feroce adesione al territorio, come le viti a piede franco. “Una mia scoperta, ho lavorato all’individuazione di una vite che potesse vivere senza piede americano. Posso dire di avere raggiunto il genoma del Canonau vero, quello autentico, il più antico vitigno dell’area del Mediterraneo. Chi beve Perda Rubia, beve un vino d’altri tempi, a partire dalla pianta che ne produce il frutto”.
     (..) Si tende a dare per certo che il Cannonau sia il nome dato dai sardi a ciò che gli spagnoli chiamano Garnacha, i francesi Grenache, i liguri Granaccia, i maremmani Alicante e i vicentini Tocai Rosso. Renato Mereu ha dedicato meticolose ricerche alla storia del vitigno. “Non ho basi scientifiche per poter confutare questa tesi, ma la ritengo falsa. Il Cannonau è stato trovato nei più antichi nuraghe, è l’uva con più storia del bacino mediterraneo. Dicono che venga dalla Spagna perché gli spagnoli sono stati in Sardegna, ma dimenticano che molto tempo prima furono i greci ad approdare in Spagna”.
      (..) E’ possibile riconoscere un vino ottenuto da viti a piede franco? La risposta di Mereu è netta. “Certo che è possibile. (..) Provate a fare una degustazione alla cieca tra una serie di Cannonau: il Perda Rubia lo riconoscerete. A partire da quella sensazione inconfondibile di frutto speciale”.
     Frutto speciale: siamo all’intraducibile. La parola frutto rimanda a sensazioni precise, è più gestibile, nel Perda Rubia vuol dire ad esempio il dolcino dell’uvaspina.
    Speciale ha invece a che fare con il soggettivo. Con l’immaginazione. Ognuno ha l’onirico che si merita. L’utopico di riferimento. Non ci sono più regole, solo un tenero fantasticare.
     Occorre assaggiare e assaggiare ancora. E’ forse allora che scorgi davvero qualcosa di speciale. Non solo il prezzo irrisorio di 10 euro. Ha qualcosa di antico, rimanda sul serio a quella percezione di vino contadino, prodotto da un nonno abbastanza umile da sapere che non basta essere vecchi per saper invecchiare.
      Il Perda Rubia è la Sardegna che fu scudo agreste per Fabrizio De André, sequestrato come Mario Mereu e non per questo meno innamorato di lei – dell’Hotel Supramonte, della sua donna in fiamme – dopo la violenza subita. E’ la terra-mangiabarche dentro cui Massimo Carlotto, dopo decenni di calvari esistenziali e ancor più giudiziari, seppe rinascere, autentica e forse unica resurrezione laica italiana. E’ un Gran Torino dove alla fine Walt Kowlaski non muore, perché in questo nuovo nuraghe non avverte più l’obbligo del sacrificio per sopravvivere.
      E’ una DeLorean alcolica, sì, ancora quella uscita chissà come dal set di Ritorno al futuro, stavolta grande al punto da farci salire tutti sopra. A patto di stare al gioco. Di avere abbastanza fantasia. Rispetto. Follia.
      Il Perda Rubia è allora e forse il vino che, se le osterie di fuori porta fossero aperte come un tempo, servirebbero ancora, in boccali contadini e bicchieri privi di convenevoli, tovaglie comuni e parole d’epoche già troppo distanti. Parole, sintagmi, fonemi capaci di germogliare: dare senso a un’idea, vita a un progetto. Carburante buono per mettere in moto la DeLorean alcolica, scivolando indietro nel tempo con lei, come pietre rosse che rotolano giù, fino all’attimo in cui – se poi mai è esistito – tutto funzionava. Quando eravamo ancora, e miracolosamente, intatti.