Mistero puffo

“Noi Puffi siam così/ noi siamo tutti blu/ puffiamo suppergiù/ due mele e poco più”. Con queste parole gravide di saggezza, Cristina D’Avena accompagnava negli Anni Ottanta le epiche gesta dei Puffi, creati nel 1958 dal fumettista belga Peyo (Pierre Culliford). Il network americano NBC chiuse la serie animata nel 1990, per lento crollo di ascolti. Più di vent’anni dopo, i puffi sbancano al botteghino. Sul grande schermo e in 3D. Il film di Raja Gosnell, in tecnica mista tra azione dal vivo e grafica computerizzata, è la pellicola più vista in Italia. L’incasso complessivo, aggiornato allo scorso weekend, è superiore agli 8 milioni e 200 mila euro. Dietro, molto dietro, tutti gli altri: L’alba del pianeta delle scimmie, Carnage, La pelle che abito.
Il cinema italiano esce distrutto dal confronto: dieci minuti di applausi alla Mostra del Cinema di Venezia, poi però a vedere i Terraferma di Crialese non va quasi nessuno. La discrepanza di gusto tra pubblico e critica non è nuova (altrimenti i cineforum d’essai si chiamerebbero multisala), ma il boom dei puffi è stupefacente (in tutti i sensi). E se al secondo posto in classifica c’è Baciato dalla fortuna, innocua commedia di Vincenzo Salemme, il cinema italiano non sta benissimo.
I puffi ha ricevuto recensioni tiepide ma non stroncanti: la media su MyMovies è di 3,49 su 5. Gosnell è un navigato mestierante: montatore di Good morning Vietnam (bene) e Mamma ho perso l’aereo (male), regista dal 1997 di sbobbe come Scooby-Doo. Il film è ben confezionato, la sceneggiatura ovviamente esile e il 3D funziona. Uscendo dalla sala, il pubblico è entusiasta: “Sembrava di stare tra le braccia di Gargamella”. E la cosa bella è che lo dice come se fosse una posizione invidiabile.
L’aspetto tecnico è significativo, non preponderante. Sul Giornale, Maurizio Acerbi ha sostenuto che “l’intera trama sembra pensata a tavolino per veicolare la vendita di gadget, videogiochi, accessori ed elementi multimediali”. Un blockbuster per adulti travestiti da bambini (e viceversa), cucito su misura per la fascia 8-12 anni ma che appaga anche il genitore, un po’ divertito e un po’ nostalgicamente titillato nei suoi ricordi d’infanzia. I ragazzini anticipano le battute e imitano il linguaggio “puffoso”, aspettando l’acme (va be’) della scena madre. Quella in cui Puffetta, dopo aver colpito il gatto Birba, dice: “Ehi tu, hai puffato con la femmina sbagliata!”. A conferma che viviamo nell’era del pensiero debole, tale mantra spopola sul web, assurgendo a grido di battaglia femminista (uh). Marco Ferradini in salsa puffica: innocuo e paradossale, quindi serissimo.
I puffi sono sempre stati un microcosmo lisergico e intellettualoide. Lisergico, perché vivono in case che sono in realtà funghi allucinogeni. Intellettualoide, perché Umberto Eco nel ’83 analizzò semanticamente la lingua puffica. La loro assenza di proprietà privata è stata poi vista come propaganda subliminale comunista (poi uno si chiede perché la sinistra sia in crisi). Al tempo stesso, lo scrittore francese Antoine Bueno (forse dopo avere ingerito un’Amanita Muscaria) ha teorizzato che i puffi  “fanno apologia della razza ariana – l’unica Puffetta è bionda – e considerano i Puffi neri come una calamità da estirpare; senza dimenticare che il loro nemico giurato, Gargamella, è caratterizzato da tratti semiti (e possessore di un gatto di nome Azrael)”. Praticamente il Grande Buffo è Hitler e il Puffo Tontolone un Mengele grullo.
Chissà se Pejo, morto nel 1992, si immaginava tutto questo. Inventò i Puffi per caso, chiedendo a un amico di passargli la saliera; non gli veniva il nome e disse “Passe-moi le… schtroumpf”: schtroumpf divenne il “vero” nome dei puffi, chiamati cosi in Italia dalla parola “buffo”. Non mancano rimandi al Signore agli Anelli, citato nella pellicola quando Gargamella in prigione chiede aiuto a una falena (come accade a Gandalf nella Compagnia dell’Anello). Al netto di letture naziste e sessiste, il film di Gosnell ha la furbizia di narrare lo scontro tra due civiltà: quella boschiva dei sei puffi che, di colpo, si ritrovano per errore nella metropoli di Central Park. Manhattan, grattacieli, umanità. Pauperismo contro capitalismo, accettazione della diversità e gag a uso e consumo di un pubblico ben disposto alla risata facile (ma mai volgare).
L’Italia in crisi, per tirarsi su, si affida alla favoletta. Alle saghe elementari degli omini blu alti due mele e poco più. Forse è disimpegno, forse canna del gas. Però, a pensarci bene, il film ha un che di rivoluzionario. Di politicamente pedagogico. Per dire: se un giorno Bersani rimbrottasse il Puffo Brontolone (Brunetta) con una frase vibrante, tipo “Ehi tu, hai puffato col comunista sbagliato!”, magari farebbe cadere il governo.

(Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2011)

One comment

  1. “I puffi sono sempre stati un microcosmo lisergico e intellettualoide. Lisergico, perché vivono in case che sono in realtà funghi allucinogeni” :-)))))
    E non solo loro. Mi sa che tutto il mondo vive, a sua insaputa, in un fungo allucinogeno (a me deve essere toccata una variante dell’Amanita Falloide).
    Ai Puffi (e a Scanzi) il merito di averlo svelato.
    Effettivamente i francesi, da qualche tempo a questa parte, si stanno facendo notare non poco, sia qui in Europa che al di là dell’oceano. Una nazione turbolenta e temibile, la Francia: le su ex colonie, soprattutto l’Algeria, lo sanno bene.
    Per non parlare della Polinesia francese la cui intrinseca fosforescenza radioattiva sfuggirà pure ai nostri sospetti satelliti ma non a quelli di Alpha-Centauri.
    Va bè, avremo occasione di parlare dei francesi.
    Il trailer del film non mi ha scosso neanche un po’, forse perché i Puffi li ho sempre trovati abbastanza noiosetti. E dire che io amo i film a cartoni animati, ora anche animazione digitale. Ho apprezzato tantissimo “I robinson-Una famiglia spaziale” (più “hungry” e “foolish” di così non è possibile, caro Steve) e “Robots”. Ho amato “La città incantata” e “Il castello errante di Howl” di Miyazaki (“Porco rosso” invece, a parte alcune scene indimenticabili, mi ha lasciata un po’…. appesa). Trovo invece un po’ retorici e falsamente emancipati i film “al femminile” della Disney, anche se devo ammettere che in Rapunzel lo sforzo narrativo è stato apprezzabile.
    E per chiudere in bellezza, non dimentichiamo che quel capolavoro di “The egg travels” viene dalla colonna sonora di un cartone animato, “Dinosaur”.

    Chissà in quale fungo vive il premier…..

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