Il fascino irresistibile (e cattivo) delle serie tivù

breakNon è soltanto la qualità di interpretazioni e sceneggiature a spiegare il successo delle serie tivù. C’è anche lo sdoganamento definitivo, talora quasi ostentato, del politicamente scorretto. In Italia, fatte salve lodevoli eccezioni come Romanzo Criminale e Gomorra, impera ancora la fiction buonista: la storia edificante, tanto improbabile quanto rassicurante. Negli Stati Uniti, e non solo lì, al centro della scena c’è invece il cattivo così respingente da risultare fatalmente affascinante. L’esempio più facile è House of Cards, che il Presidente del Consiglio Renzi ha detto di utilizzare quasi come vademecum strategico (non un bel segnale per l’Italia: il protagonista, Frank Underwood, è una carogna senza pari). Ci sono però tanti altri casi. In primo luogo, la serie tivù – quella migliore – ha saputo giocare da sempre sul chiaroscuro: sul buono che non lo è mai fino in fondo, sul cattivo che non lo è mai interamente. Sin da Twin Peaks, apripista della nuova narrazione sul piccolo schermo, è il dubbio a caratterizzare la storia. La sfumatura, il non detto. A colpire lo spettatore non sono tanto i personaggi manifestamente positivi, quanto chi è sfaccettato e possibilmente inquietante. Di Lost, altra serie-mito, ammaliava più di tutti l’ineffabile Ben Linus, capace di passare dal gesto più atroce all’apertura meno prevedibile. Non è soltanto il fascino del male, quanto la capacità di raccontare – avvincendo, alimentando l’immedesimazione, creando dipendenza – l’ineluttabilità della immoralità latente. L’errore quotidiano, l’inciampo esistenziale. La tentazione, la corruzione: la naturale corruttibilità dell’animo longmireumano, che conduce allo sbaglio destinato a macerarti in eterno. Fino a trasformare il personaggio in una “gramigna umana” che uccide tutto ciò che tocca, anzitutto ciò che più ha di caro. Quel che accade a Jack Bauer, protagonista di 24 (nove stagioni), che ha coinciso con un ulteriore innalzamento dell’asticella qualitativa. Col passare degli anni la serie è diventata sempre meno autoconclusiva (CSI, Dottor House) e sempre più profetica. In grado non solo di raccontare, ma anche di prevedere la realtà: quando in 24 comparve un presidente di colore sembrò un azzardo, poi però Barack Obama è stato eletto davvero. Oggi la serie tivù  si configura come un mega-romanzo a puntate, con l’ambizione neanche troppo latente dell’epica. Ulteriori step hanno coinciso con l’arrivo di serie spesso partite in sordina e divenute giustamente di culto. In molte di esse fatichi a trovare personaggi minimamente edificanti, a meno che non sia da ritenersi lodevole il personaggio che ha ucciso “soltanto” tre persone a fronte della media di 20 dei compari (The Shield, Sons of Anarchy). Sono racconti impietosi, che eternano un presente irrimediabilmente compromesso e naturalmente apocalittico, con pochi martiri e troppi carnefici (talora inconsapevoli). A salvarli, e neanche sempre, antieroi scarsamente convinti che la redenzione sia possibile: non c’erano eroi in Revolution, evaporata dopo due stagioni, se non qualche sopravvissuto fatalmente incarognito da un black-out definitivo che – più che togliere luce – aveva spento il senso della morale sul pianeta Terra. Il collante, anche lì, non era tanto la trama quanto le costanti macerazioni del cattivo (con risvolti buoni) Sebastian “Bass” Monroe e del buono (con propaggini efferate) Miles Matheson. Talora gli Stati Uniti si guardano alle spalle, pure in quel caso per ribadire che il male è irredimibile: nessuno si salva in Heel on Wheels, saga sulla nascita della ferrovia dopo la Guerra di Secessione. Il peccato c’era anche allora, c’è sempre stato e sempre ci sarà. La serie tivù è uno specchio che mostra il marcio: indugia su di esso con sapienza e sadismo. Chi ancora coltiva un barlume di disillusione tenera è fuorimoda e viene stoppato dopo tre stagioni: chiedere agli autori del lodevole trueLongmire, silenziati dalla produzione perché l’opera piaceva agli over 45 ma non ai più giovani e dunque era poco vendibile. I capolavori più manifesti degli ultimi anni sono stati Homeland, True Detective, Breaking Bad e Rectify. Cosa li caratterizza? Il livello sovrumano degli attori, la qualità rara della scrittura. E la sostanziale assenza di anime salve. Ogni redenzione è negata, come pure ogni catarsi. La tivù ha regalato poche figure strepitose come il supremo Heisenberg di Breaking Bad, eppure era un produttore di metanfetamina divenuto strada facendo omicida. Mica un santo, mica un eroe. Sfiorano forse la rettitudine gli amici-nemici della prima stagione di True Detective, saga-blues con i magistrali Matthew McCounaghey e Woody Harrelson, ma le loro sono vite impietosamente prossime al calvario. La serie, ancor più se ispirata, è nichilista e impietosa: spietatamente realista e lucidamente pessimista. Non addolcisce, ma infierisce. Sparge sale sulle ferite. L’happy end è un anacronismo neanche concepito. E l’ultima puntata non regala necessariamente risposte.  Il protagonista di Rectify è innocente o colpevole? Il sergente Brody di Homeland era una spia del terrorismo islamico o (anche e soprattutto) una vittima della vita, destinato a sacrificarla per inseguire uno scampolo di perdono? Impossibile e neanche così importante saperlo, perché è proprio il dubbio inquietante l’architrave della serie tivù. Epica post-contemporanea, tanto irresistibile quanto tremenda. (Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2014).

10 Comments

  1. Ho visto gli episodi di Doctor Who dalla prima alla quarta stagione, speciali compresi.
    Mantengo tutte le mi riserve sulle trame – scontate, anacronistiche – ma devo scioglierne parecchie sulle sceneggiature. A tratti esilaranti (nell’ultimo episodio della quarta stagione, The end of Time, c’è una scena divertentissima), in altri momenti invitano ad una riflessione profonda.
    Uno degli episodi migliori da questo punto di vista è La Natura Umana (terza stagione). Riprende e sviluppa il tema del sacrificio: dico ‘riprende’ perché nella serie questo tema ricorre spessissimo ma mentre negli altri episodi viene trattato in maniera superficialmente positiva, ancorché drammatica, nell’episodio in questione il punto di vista viene completamente spostato.
    Faccio un necessario spoiler.
    Il Dottore, a causa di un pericolo incombente, deve cambiare la sua natura paradivina di Signore del Tempo in quella di essere umano. Manterrà le sue sembianze ma al suo interno tutto diventerà umano. Per fare un esempio, invece di due cuori se ne ritroverà uno solo (sì, ho storto il naso anch’io).
    Perderà anche la memoria che verrà conservata in un orologio da taschino. E diventerà John Smith, nome comunissimo, tanto per sottolineare la sua natura di umano pinco pallino.
    La storia esplode in tutto il suo dramma quando John Smith, completamente ignaro del suo destino fino al momento cruciale, deve ritornare nei panni del Dottore rinunciando per sempre alla sua umanità. Insomma, deve morire. L’attore shakespeariano David Tennant riesce a rendere benissimo quel momento mettendo in scena tutta l’umana ribellione non solo di fronte al destino tragico che attende ogni essere vivente ma anche all’idea che ci debba essere sempre un “inferiore” sacrificabile per il bene (di un) “superiore”.
    Idea che viene messa ulteriormente in discussione dall’amata di John Smith quando, nel discorso d’addio fra lei e il Dottore (John Smith ormai non esiste più) lei gli fa gelidamente presente che mentre lui, il Dottore, ha dovuto solo avere il coraggio di cambiare, John Smith ha dovuto avere il coraggio di morire. Per sempre. Quindi, chi fra i due è realmente “degno”? La risposta è così ovvia da rimanere inespressa, così come la successiva, ovvia domanda: “Perché è sempre quello meno degno a stabilire chi deve essere sacrificabile?”.

  2. Caro Andrea sono sostanzialmente d’accordo. Mi permetto di fare un passo indietro. Di quasi 30 anni. Sono un classe ’77 e durante le vacanze al mattino la prima tv commerciale proponeva serie poliziesche americane, passate alla storia con più o meno merito, che avevano l’happy ending tra i pilastri della loro gestione. T.J.Hooker, i Chips, Simon & Simon, Magnum P.I., e altre. Tranne rari casi le puntate finivano sempre con i buoni che vincevano sui cattivi.
    L’elemento di rottura arriva nel 1986. Miami Vice cambia il genere poliziesco e lo fa per sempre. L’ho talmente amata che è l’unica serie che possiedo in DVD; tutte e cinque le stagioni. E’ un elemento di rottura debordante. La musica diventa centrale, la scenografia si allarga ma è la fotografia che fa capire che c’è qualcosa di nuovo. E poi.. i colori. Tinte forti. A volte fluorescenti. Oppure il bianco e il nero. I 45 minuti circa delle serie televisive diventano con Miami Vice dei piccoli film. Non semplici episodi. Michael Mann non sbaglia. La serie esplode. Da un’iniziale programmazione in seconda serata gli indici di ascolto impongono il passaggio alla prima. Gli attori non sono dei buoni. Hanno i loro lati deboli e non sono eroi. Non sono infallibili. Ma ciò che sorprende in assoluto è che praticamente non c’è mai l’happy ending. Anche quando si incastra il cattivo di turno si ha sempre l’amaro in bocca. Perché non ci può essere dolcificante che tenga per tutte quelle storie. Comunque vada si perde sempre qualcosa alla fine.
    La successiva rivoluzione la porta CSI nel nuovo millennio. Però parlo della prima. Gli spin-off mi hanno sempre lasciato un pò perplesso.
    CSI approccia al crimine in modo nuovo. Dal lato investigativo forense. E anche lei esplode. Per ovvi motivi. In particolar modo per William Petersen (che aveva lavorato già con Michael Mann.. guarda caso). La figura di Grissom fa da calamita. Poi la serie si sviluppa bene dando forza e spessore anche agli altri elementi della squadra. Anche loro non infallibili. Non eroi. Non sprezzanti del pericolo. Con i loro segreti e con le loro ombre. L’uscita di scena di Petersen dopo 9 stagioni fa registrare un calo; fisiologico se vogliamo. Nè Fishburne nè Danson sono all’altezza. Chi al contrario poteva essere perfetto era ed è Gary Sinise di CSI New York. Ma spostarlo da New York a Las Vegas avrebbe acceso la miccia per il crollo dello spin-off nella Grande Mela.
    Quale serie recente ha un fascino irresistibile e cattivo?
    Mi permetto di segnalarti Person Of Interest. Il soggetto è di Jonathan Nolan (che è un pò come avere un assegno circolare della banca in mano). Tra gli attori principali c’è quel Michael Emerson già presente in Lost. Jim Caviezel dopo essersi perso ha trovato la sua dimensione e risulta perfetto nel ruolo “dell’uomo con la giacca”. Per non parlare dei personaggi che ruotano intorno a loro. In modo particolare segnalo Sarah Salai aka Shaw e Amy Acker aka Root/Miss Groves. E una serie di oscuri personaggi che si muovono nel sottobosco per comparire e scomparire.
    L’idea della serie è avvincente e basata su una struttura solida e reale dalla quale si sviluppa una storia un pò fantascientifica in tipico stile Nolan. Ma non troppo fantascientifica. A volte la realtà supera l’immaginazione più spesso di quanto si pensi.
    Se avrai l’occasione di vederla.. gradirei avere una tua opinione in merito.

    Cordialmente,
    Alberto Bastai Nizzoli – Modena

    • Ottimo commento, complimenti. Mi ha spinto a saperne di più sulla serie da te segnalata, Person of Interest, e dopo aver letto la trama su Wikipedia non ho potuto fare a meno di associarla a Minority Report. E anche ad un libro di Michael Connelly “Lame di luce” che ho finito di leggere giusto qualche settimana fa: scritto nel 2003, praticamente all’indomani dell’ 11 settembre 2001, descrive coraggiosamente (non dimentichiamo che la ferita era ancora aperta e dolorante) lo stato dell’arte usando la chiave del poliziesco.
      Coraggiosamente e impietosamente. Dice chiaramente che negli Usa si è tentato di riscrivere le regole della convivenza civile dando poteri pressoché illimitati ad un branco di fanatici paranoici – fra le cui file imperversavano indisturbati individui socialmente pericolosi quando non veri e propri pazzi – che in nome della sicurezza dell’America calpestavano (calpestano?) senza pietà, anzi, con un certo sadismo, i diritti civili dei loro concittadini. Come i loro colleghi domenicani del sedicesimo secolo al servizio della Santa Inquisizione, andavano ostinatamente a caccia del demonio un po’ per esorcizzare i loro fantasmi personali e un bel po’ per tenere saldamente in bocca, tramite l’abuso la coercizione e il terrore, quella miracolosa fetta di potere che nessuno in condizioni normali si sarebbe mai sognato di elargirgli. Completamente scollati dalla realtà, spesso non solo non cavavano un ragno dal buco ma intralciavano pure la giustizia ordinaria col risultato di assicurare un’allegra impunità ai criminali (chissà, forse per simpatia) e instillando nel contempo un sentimento di completa sfiducia e ripugnanza in tutti quei cittadini che avevano la disavventura di imbattersi nei loro sistemi.
      Questi finti paladini della Giustizia erano in realtà eversori di un sistema di regole e soprattutto di princìpi. L’atmosfera che si respirava nei luoghi fisici e psichici abitati da costoro era quella della libertà assoluta perché LORO erano l’America e si potevano permettere tutto, pure di riscrivere la Bibbia.
      Figuriamoci qualche straccetto di Costituzione, verrebbe da dire.
      Verrebbe anche da lodare il senso critico di scrittori (e non solo scrittori) coraggiosi, impietosi e liberi come Connelly se non venisse il fastidioso sospetto che sia la classica, consolatoria pillola indorata.
      Che proprio pillola non è…

  3. A proposito di serie televisive…
    Ne parlavo proprio qualche giorno fa con mio figlio, la serie in questione era Doctor Who. Ho provato a seguire alcuni episodi mandati in onda qualche tempo fa su Rai 4 (Matt Smith nei panni del dottore) e li ho trovati francamente insopportabili: forzatamente scoppiettanti, sempre alla ricerca del colpo di scena, ostentatamente melodrammatici, superficialmente dinamici (si passava da uno stato d’animo all’altro così come si salterebbe “di palo in frasca”) e il tutto senza una vera struttura narrativa: insomma, come andare al Luna Park, viaggiare sulle montagne russe, nel tunnel dell’orrore, fare un giro sulla giostra panoramica o sul bruco-mela e l’unico elemento comune è il gioco a casaccio preponderante e schiacciante rispetto alle parti che dovrebbero garantire logica e continuità.
    Mio figlio ha obiettato che i primi episodi del nuovo ciclo di stagioni, partito nel 2005, sono di gran lunga migliori e che prima di sparare a zero sarebbe bene che me li andassi a vedere (odo un coro di approvazione…).
    Va be’, ottempererò.

    Tornando al tema principale dell’articolo – le nuove serie televisive americane – devo ammettere che, a parte alcuni episodi di Lost, non ne ho vista neanche una di quelle citate e non credo che le vedrò in futuro (abbiate pietà, devo ottemperare altrove).
    Mi posso quindi basare esclusivamente su quella che sembra essere un’ottima recensione del fenomeno e che stuzzica una riflessione sul cambiamento sostanziale, anche se distribuito in pillole seriali, della mentalità (propaganda?) statunitense. A quanto pare ormai è inutile continuare ad atteggiarsi a “good guys”, paternalisti pedagoghi un po’ bigotti ma in fondo bonari. E’ giunto il momento di fare autocritica – e in questo gli americani sono formidabili, bisogna riconoscerglielo – e di disvelare la natura ferina che alberga nella parte più oscura della loro società. E che solo loro possono riconoscere e tenere sotto controllo, ovviamente.
    Poi però c’è da fare i conti anche con la società globale e qui il discorso si fa “un attimino” più tranciante e minaccioso.
    A questo proposito, mi viene in mente “Captain America : The winter soldier” in cui si gioca ancora in larga parte con la vecchia contrapposizione buoni/cattivi (dove girano tanti soldi è meglio andare sul sicuro): nonostante ciò l’America riesce cautamente a darsi della “nazista” in onore del nuovo corso politico disvelatore e, mettendo da parte nella salienza narrativa il classico “mea culpa” che dovrebbe preludere a remissione e redenzione, focalizza invece l’attenzione del pubblico globale sulla sua mirabolante potenza tecnologica e militare corredata, per chi avesse poca sensibilità alle immagini, da un’affermazione folgorante: “…voi avete bisogno di noi. Sì, il mondo è un luogo vulnerabile ed è vero, noi aiutiamo a renderlo così, ma siamo anche i più qualificati a difenderlo” (Black Widow). Più che una pillola, una supposta.

    Suggerirei un occhiello all’articolo: “Who’s bad…”

  4. Ciao Andrea, bell’articolo. Che dire, a distanza di mesi io mi ritrovo ancora a pensare, di tanto in tanto, alla fine di Hank nel deserto. Dio che schiaffo che mi hanno tirato gli sceneggiatori di Breaking Bad! Comunque vorrei consigliarti altre due serie. La prima è Boardwalk Empire, prodotta da Martin Scorsese e Mark Wahlberg, con un immenso Steve Buscemi. La seconda è The Walking Dead che in quanto a scandagliare tutte le complesse sfaccettature dell’animo umano credo non abbia eguali. Buona visone

  5. Davvero nell’articolo! Fa piacere leggere un’attenta analisi della sociologia dietro le migliori serie TV.
    Forse manca giusto qualche accenno alle serie satiriche o di humor nero…come C’è sempre il sole a Philadelphia o Orange is the new black.
    Bravo Andrea!
    Mi piacerebbe discutere con te di TV fatta bene!

  6. Naturalmente ognuno ha una sua classifica personale, ma siamo quasi tutti d’accordo sul fatto che a cominciare è stato Twin Peaks, serie che ha proprio dato il LA alla produzione curata nei minimi dettagli. Personalmente io ritengo che il capolavoro televisivo di sempre sia stato X-Files per la molteplicità di argomenti tattati, per la minuziosità nei dettagli e perchè è stata forse lei la serie che ha spiegato agli altri che, pilotati dal produttore esecutivo nonchè creatore Chris Carter, si potevano riunire decine di autori pronti a dire la loro. Tim Minear (Buffy, Angel ed ora American Horror Story), Howard Gordon (24, Homeland), Frank Spotniz naturalmente, James Wang. Ma gusti ed opinioni a parte che cominciano ad essere anche condizinati dall’età, una menzione particolare la meritano altri paesi. Se è vero che gli italiani lavorano bene solo grazie a Sky e che il resto è vero porcheria, è anche vero che siamo stati noi a produrre La Piovra negli anni ottanta. Significa solo che gli autori ci sono anche in Italia, sugli attori non ci sono dubbi ma come proporli al pubblico che vive di ricette di cucina, di Padre Pio e dell’ultimo giallo irrisolto? In altri paesi invece, come Danimarca e Svezia hanno creato ottime storie che gli americani hanno prontamente ripreso, come The Killing per esempio. E poi ci sono gli inglesi, che stanno facendo degli ottimi lavori, uniscono bellezza nelle storie a professionalità elevatissime nellle interpretazioni. Ultima in ordine di tempo che mi ha colpito tantissimo e Broadchurch, che gli americani hanno da poco lanciato nel loro paese col titolo di Gracepoint rubando, oltre alla storia, anche l’attore protagonista, l’ottimo David Tennant.

  7. Ciao, letto tutto d’un fiato. Domanda: possibile che noi italani non sappiamo più scrivere storie e quindi sceneggiature per competere alla pari con gli americani? Qualche serie TV interessante in giro per l’europa la si trova, ma qua da noi no. Lo sai spiegare?
    Ciao!

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