Ciao, Enzo

bgjzq5ecyaem-rl.jpg-large“Perché ci vuole orecchio”, e lui ce l’aveva. “Tutto, tanto, anzi parecchio”, secondo una progressione semantica che nulla aveva di logico. E dunque era sua: molto sua. Enzo Jannacci è stato il corsaro dei cantautori italiani. Il surreale, l’incostante, il non etichettabile. Capace di capolavori stordenti (Fotoricordo, 1979) e dischi tremendi (Discogreve, 1983). Mai canonico e mai lineare. Una sera ti incantava e quella dopo, visibilmente alticcio, distruggeva sul palco buona parte di se stesso. Pazzo autentico e musicalmente bipolare: da una parte suonava jazz con Chet Baker e Gerry Mulligan e dall’altra importava il rock’n’roll con Tony Dallara e Adriano Celentano. Rocky Mountains, Rock Boys. E Giorgio Gaber, l’amico e fratello con cui ha viaggiato finchè ha potuto. Ne aveva una stima smisurata. Due Corsari, Ja-Gà Brothers: fette di limone e canti anarchici, eseguiti in una Rai inizialmente tollerante e poi censurante. Nel 1989 carambolò a Sanremo. Il brano si intitolava Se me lo dicevi prima: “E allora è bello quando tace il water/ quando ride un figlio/ quando parla Gaber”. In qualsiasi altro artista la rima “water/Gaber” avrebbe portato all’arresto letterario: in Jannacci no, perché lui creava così. Un sublime feticista del rovesciamento. Della mescolanza. Alto e basso, con l’unico terrore autentico verso la “brutta musica fatta solamente con la batteria”.
Cantante, pianista. Scrittore, presentatore. Jazzista, poeta. Karateka (cintura nera). Attore, sceneggiatore, doppiatore. Uomo di teatro e televisione, sempre ammesso che il primo fosse in grado di comprenderlo (e viceversa) e la seconda di tollerarlo (e viceversa). Jannacci era un bulimico pigro, un ossimoro lunare – e lunatico – che sfrecciava per Milano guidando il motorino come un eterno incosciente (chiedere a Francesco Baccini). Ciclicamente autodistruttivo, della vita amava anzitutto i vizi. A cavallo dei Sessanta, la Rai lo cacciò dai palinsesti. Lui reagì andando in Sudafrica e Stati Uniti. Quattro anni per valorizzare la laurea in medicina e specializzarsi in chirurgia e cardiologia.
Jannacci viveva mille vite con l’aria di chi faticava a sopportarne anche solo una. Quando parlava, non si capiva quasi niente. Biascicava concetti eretici. Quando cantava, radiografava col linguaggio dei folli. Genio e delirio di un innocente urticante. Il lirismo di Vincenzina e la fabbrica (tra i vertici della musica italiana), la Milano perduta (El me indiriss) e i senzatetto in scarpe di tennis. La satira contro “La televisiun la g’ha na forsa de leun, la televisiun la g’ha paura de nisun, la televisiun la t’endormenta cume un cuiun” (la Rai alzava il volume degli applausi per coprirne le parole) e contro un esercito inconcludente di “quelli che”. Ha cantato come nessuno – forse persino più di Gaber – la milanesità. Trovò in Beppe Viola un altro sodale decisivo. Lo perse troppo presto e non ebbe fretta di elaborarne il lutto. Si chiuse in se stesso, facendo poi finta di essere in qualche modo uscito dal buio. Viveva la carriera musicale come una dépendance neanche troppo necessaria, come il percorso di un eteronimo talentuoso che da ragazzo si nascondeva per non far vedere gli occhialoni. Ogni tanto scompariva, niente dischi né concerti. Nessuno sapeva dove fosse, forse neanche lui.
1232343435Ha rivoluzionato la canzone d’autore, di per sé tendente alla seriosità, con un’ironia randomica personalissima (Faceva il palo, L’Armando, Silvano). Piluccava da mondi molto suoi, pieni di Giovanni telegrafisti innamorati – nonostante tutto – della vita. Scriveva per sè, ma la bellezza intrideva anche gli altri (Mina e Paolo Conte i suoi interpreti migliori). Era malato da anni. Passava buona parte del tempo in farmacia, quella di Viale Romagna. Si fermava poco prima dell’uscita e stava lì. La gente lo guardava e gli chiedeva perché. Lui, con quella voce stropicciata: “Be’, qua c’è l’aria condizionata e in casa no”. Uomo dai percorsi creativi insondabili – al Festival Gaber è riuscito a trasformare l’esile Una fetta di limone in un brano straziante – e dall’aneddotica infinita. Una volta, al Maurizio Costanzo Show, ascoltò le parole di una signora che si vantava di aver raggiunto la vecchiaia conducendo un’esistenza senza eccessi. Gli chiesero un parere. Lui, che ha continuato a esercitare finché ha potuto (e spesso gratuitamente) la professione di medico, sintetizzò così: “Una vita da malati per morire da sani”. Lui preferiva il contrario. Tra i suoi allievi, Paolo Rossi. Hanno condiviso Sanremo, accordi, battaglie, bevute e Aspettando Godot di Samuel Beckett. Era il 1991. Il cast: Jannacci, Gaber, Felice Andreasi e Rossi. La sera prima del debutto, Rossi è in albergo con la febbre alta. La sua presenza è a rischio. Arriva Jannacci. Prepara un beverone di gin, mille pasticche e carne macinata (“per provocare secchezza dopo la bevuta”). Rossi, terrorizzato, ingurgita tutto. La mattina dopo è guarito (ma nella notte ha vomitato anche l’anima). Alla prima, Andreasi non si ricorda una battuta. Rossi la sa, ma non può suggerirla perché interpreta un muto. Allora Jannacci, che poco prima si era appisolato, guarda Andreasi e gli suggerisce: “Buttati giù, buttati giù!”. Intende fisicamente: se si getta a terra, fanno sipario e magari parte pure l’applauso. Andreasi però non capisce e grida: “Buttati giù, buttati già!”. Che con quella scena non c’entrava proprio niente. Il giorno successivo, un preoccupato Gaber suggerisce di dotare Andreasi di un auricolare. Nessuno vuole dare la notizia al diretto interessato, che la prenderà come un’umiliazione. Così Gaber e Jannacci incaricano Rossi, con una scusa palesemente subdola: “Dai, vacci tu da Felice, che lo conosci di meno”. Andreasi, per nulla felice, accetta. Sul palco, però, l’auricolare non funziona. Gli ultrasuoni fischiano, i “bip” sfondano i timpani. E il povero Andreasi, durante la seconda replica, comincia a urlare. Un disastro. Jannacci, però, sembrava quasi divertirsi. Accadeva spesso. (Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2013)

14 Comments

  1. ciao ti apprezzo molto come giornalista abbiamo bisogno di giornalisti come te travaglio gomez padellaro aggiungo anche santoro anche se ultimamente non ascolto molto .Mi piacerebbe sapere le tue motivazioni il tuo amore cosa ti spinge ad essere così…forse forse se altri giornalisti giovani come te o in erba se scoprono il tuo amore verso il lavoro un domani ci saranno più giornalisti come voi che si appassionano al girnalismo.. grazie

  2. Io che, come tutti i torinesi, ho qualche problema con Milano, non ho potuto non amare e non sentire mia la Milano di Gaber e Jannacci (ed anche quella di Svampa, di Fo…qui a cantar la Torino di barriera c’era solo il Gipo)…
    Una Milano sfigata ed umana, simpatica, fatta di carne e non di plastica, più bevuta che da bere…mi mancano un sacco tutti e due!!!
    E’ stato bello rivederli in video alla serata Gaber dedicatagli dalla Biennale Democrazia di Torino.
    Grazie, Scanzi, per questo bellissimo e appassionato ricordo.

  3. Sicuramente e non di poco, sono un po più vecchio di te. Andai a comprare il disco per una canzone, ma fui poi sorpreso dalle altre, in particolare “Mario” struggente e tristissima che allora centrava in pieno il mio stato d’animo. La copertina lo ritrae sui pattini a rotelle (che Lui amava moltissimo) in piedi accanto alla moglie seduta. Val la pena di ascoltarlo soprattutto per gli animi melanconici come il mio. ciao Morris.

  4. Quando mi è stata comunicata la morte di Enzo Jannacci (ironia della sorte stavo tornando dal cimitero) per me,avvocato civilista nell’inciviltà del diritto e soprattutto cantautore ed artista di teatro canzone di un palcoscenico affamato,condannato al silenzio degli ultimi che forse non saranno mai primi, sic 10 anni fa con Gaber, è stato raccogliere un ulteriore testimone per l’ultimo scatto rabbioso di un’epoca che ha segnato e continuerà a segnare la cultura (quella vera e sana) musicale e cantautoriale italiana. Mentre i 10 s(p)aggi si impegneranno nelle loro manovre di palazzo alla corte di un re senza cavallo, continuiamo a opporre i sogni di speranza, di lotta verso un sistema incancrenito dalla corruzione, con le nostre canzoni scanzonate, le nostre parole di denuncia, la nostra presenza ed il nostro impegno. Ciao Enzino… con eterno affetto e riconoscenza.

  5. A me Gaber ma soprattutto Jannacci non sono mai piaciuti. Non ho mai trovato in loro quella genialità che molti vedono. Forse sarà perché non sono milanese…

  6. Mai apprezzato veramente , ma questo non significa che non ne avessi una certa stima. I gusti sono gusti. Quello che traspariva dal video, sempre la sua grande vitalità ed energia, voglia di divertirsi, in maniera sincera. Manca questa genuinità a questo mondo dello spettacolo molto artefatto.
    Bell’articolo, mi sorge il dubbio che Lei, signor Scanzi lo conoscesse veramente bene o comunque meglio di tutti noi comuni ascoltatori di radio che tralasciamo forse la bellezza del personaggio ad altri intenditori.
    Comunque bel tributo e un po di malinconia per Jannacci.

  7. Avevo proprio l’impressione che fosse così, mi è sempre piaciuto tanto perchè era matto vero e poi che belle le sue canzoni!! Da brividi

  8. Bellissimo articolo, peccato non sia citato Dario Fo che scrisse parecchie delle prime canzoni di Jannacci a cominciare da “Prete Eriprando”, non ricordo il titolo preciso, a “Ho visto un re” che arriva direttamente dallo spettacolo “Ci ragiono e canto” per cui credo che anche la musica fosse di Fo. E poi “Faceva il palo” era sua o di Walter Valdi? Tutto questo senza togliere nulla al ricordo, mi ripeto, bellissimo di Enzo Jannacci in questo scritto.

  9. Dio Santissimo che bel articolo. Scanzi, prima Gaber, adesso Jannacci. Noi milanesi ci sentiamo orfani, ma a te un grandissimo grazie per le tue belle parole. La grigia e fredda Milano brillava della luce riflessa delle due stelle Ja-Gà, da adesso sarà sempre più grigia. Fo, da solo che può fare?
    Bravo Scanzi, oggi mi hai commosso, cazzo!

  10. Grazie per questo ritratto. Appassionato, inedito, completo. Per chi , giovane come me, non può conoscerlo bene è bello che ci sia qualcuno che te lo mostri lontano da stereotipi e luoghi comuni.
    Bello.

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