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Ristorante Veritas (Napoli)

lunedì, Novembre 22nd, 2010

I due libri sul vino hanno aperto varchi spazio-temporali di cui continuo a stupirmi. Uno di questi si chiama Flavio Roddolo. In tanti sono andati in pellegrinaggio da lui, a Monforte d’Alba, dopo aver letto Elogio dell’invecchiamento. In tanti.
Tra questi, i proprietari del ristorante Veritas a Napoli. E’ andata così: una coppia fa qualche giorno di vacanza, passa per le Langhe, si ricorda del mio libro e decide di provare finalmente “questo famoso Roddolo”. Va da lui e lo trova (bontà loro) come lo avevo descritto. Da Flavio c’erano anche i coniugi Garanzini.
Nasce un’amicizia, anche grazie al mio primo libro enologico. I due ristoratori di Napoli vanno a pranzo dai Garanzini, pochi mesi dopo Gigi e Maria fanno una degustazione dei loro vini al Veritas di Napoli. Il feeling cresce e, poco dopo, anche Gianni Mura visita il locale. Due volte. Con il vecchio chef e con quello nuovo (presente da settembre di quest’anno, quindi non considerate le recensioni antecedenti a questa data che trovate sul web). Gianni rimane colpito dalla cucina, dal locale e dai prezzi. Ne scrive sul Venerdì di Repubblica.
Stefano, il proprietario, chiede il mio numero telefonico. Vuole ospitarmi. Troviamo un giorno buono, mercoledì scorso, a metà tra le mie apparizioni a Pescara e Caserta. Mi ospitano al Grand Hotel Parker’s, un cinque stelle bellissime in Corso Vittorio Emanuele. Il traffico è devastante, piove da giorni e sapete quanto efficace sia stato il governo Berlusconi a risolvere il problema dei rifiuti. In più vengo da Pacentro (vedi post precedente), sono un po’ stanco e mangiato più di quanto solitamente mangi a pranzo (quasi nulla).
Potrebbe andare male, va benissimo. Arrivo al Veritas, adiacente al Grand Hotel Parker’s (Corso Vittorio Emanuele 141), poco dopo le 21. Mi attendono Stefano e la sua compagna.
La cena, dall’antipasto al dolce, è impeccabile. Non mangiando carne, si gioca su pesce e verdure. Tutto al punto giusto, porzioni né lillipuziane né abbondanti, stile ricercato ma non troppo. Carta dei vini sontuosa, qualche birra artigianale, arredamento di chi sta emancipandosi (giustamente) dal concetto di winebar only.
Poiché non sono un critico gastronomico, ma un cazzaro a forte grado alcolico, non parlerò qui delle varie pietanze (alcune buone, altre impeccabili) ma dei vini. Non li ho scelti io, me li sono fatti scegliere dal maitre. Lo rifarei, perché la lettura della carta dei vini mi era bastata per capire che dietro alla scelta c’erano amore per le persone, rispetto della natura e ricerca garbata per la particolarità.
Il primo vino bevuto è stata una Falanghina Gallicius 2009 di Tenuta Spada. Classica Falanghina dalla schiena dritta, verticale, da aperitivo. Bella sapidità, ottimo prezzo, vino “basico” da tutti i giorni che d’estate ne berresti a secchi. Da provare.
Ho poi intuito che il maitre aveva un debole per una cantina beneventana, I Pentri. Mi ha fatto provare due vini aziendali, il Gran Momento di Flora 2002 e l‘Iss 2007. Il primo è una Falanghina botritizzata, ma vinificata secca. Quando me l’ha descritta, ho temuto quei bianchi un po’ grassi. L’ho trovata, a dire il vero, proprio così. I bianchi secchi da uve botritizzate non mi convincono quasi mai, non capisco perché a un bianco si debba dare un surplus di opulenza. Ancor più se il vitigno ha di per sé morbidezze spiccate (la Falanghina non è lo Chardonnay, ma neanche un Riesling della Mosella). Sarebbe come regalare una meringa a un obeso: che bisogno c’è? Mica ne ha bisogno. Sta già messo bene di suo. Per questo l’ho trovato un po’ stancante e in debito di eleganza e acidità. Anche l’Iss, vino da dessert a base di Fiano e Malvasia di Candia, non mi ha esaltato, soprattutto per un sentore finale di caramello bruciato che proprio non doveva esserci. Oltretutto io amo un vino dolce su cento, quindi non partivo entusiasta.
Il vino che invece mi ha convinto è l’Adam 2005 di Cantina Giardino. Un Greco macerato 4 giorni sulle bucce (lo so, ragazzi, lo so: state pensando che con questi orange wines ho un po’ rotto le palle. Non avete torto). Mi è parso un bianco di spessore e struttura, con morbidezza decisa, magari appena meno snello di quanto avrei voluto, ma riuscito e originale.
La serata è andata avanti fino a mezzanotte. Nel frattempo, ci avevano raggiunto Luca Miraglia, lettore casentinese-campano che da queste parti passa spesso, e sua moglie.
Una bella cena, un bel locale. Non posso che confermare quanto detto e scritto dai Garanzini e dai Mura, e non è una novità.

P.S. Non pago della sua gentilezza rara, Stefano mi ha portato il giorno dopo a pranzo al Timpani e Tempura, bottega-slow food nel cuore del centro storico di Napoli. Del pranzo ricordo la torta rustica napoletana, con pasta sfoglia (dolce) e ripieno di scarola, pinoli e uvetta. B-u-o-n-i-s-s-i-m-a. E ricordo ancor di più il monumentale Poliphemo di Luigi Tecce. Un Taurasi, annata 2006, naturale e spietato. Vinificato con tutti i crismi. Lieviti autoctoni, sfecciatura in acciaio, no filtrazione. Giovanissimo, ma con un talento che ne bastava la metà per fare cortei. Speziatura sottile, rabarbaro a seguire il giusto fiore e frutto rosso. Di equilibrio e miracolosa beva. Gran persistenza. Uno dei migliori rossi del sud Italia, e lo dico anche pensando al prezzo – sui 35 euro al ristorante – e consapevole che mi sono reso vittima di infanticidio, bevendo una bottiglia bambina.