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Tre orange wines

venerdì, Ottobre 29th, 2010

Li chiamano orange wines. Sono i bianchi sottoposti a macerazione, più o meno lunga, sulle bucce. Vinificati, di fatto, in rosso.
Normali nei Cinquanta e Sessanta in Italia, non per moda ma perché al tempo non era così scontato per i contadini la differenza di lavorazione tra bianchi e rossi. Tornati in auge, partendo dal Friuli, per motivi in qualche modo “ideologici”. Su tutti il rimando alla tradizione eurasica georgiana. Quasi sempre legati ad aziende produttrici di vini naturali.
Il primo nome che viene in mente è quello di Josko Gravner, ma non è certo il solo. A volte capolavori, altre volte azzardi pleonastici. Vini non per tutti i gusti, che richiedono conoscenza e attenzione. Profumi da passito ma gusto secco, deciso. Colore tendente all’aranciato, da qui il nome con cui li si identifica.
La macerazione sulle fecce dà ai bianchi maggiore complessità olfattiva, più struttura (e tannini), spigoli. Nei casi migliori, grande longevità, carattere e persistenza. Il rischio dell’autogol, del famolostranismo, è sempre dietro l’angolo.
Ho ritenuto doveroso fare questa premessa perché, ultimamente, mi sono imbattuto in tre orange wines che ho apprezzato.
Il primo era il Dettori Bianco Romangia 2007. Vermentino sardo. Alessandro Dettori fa vini duri e crudi, grammaticalmente scorretti come ammoniscono le guide, ma spietatamente fedeli al territorio (Sennori, nel sassarese). Non piacciono a tutti, hanno personalità spiccata e alcolicità dirompente (15.5 gradi in questo caso). Bevuto al Pane e Vino di Cortona a 17 euro. Il calore dell’alcol era mitigato da splendide acidità e sapidità. Nulla a che vedere con certi (la maggioranza) Vermentino fighetti, barriquati e stancanti. Naso di frutta gialla matura, tropicale, con note erbacee e salmastre, balsamiche. Un vino di tre anni che cominciava ad essere pronto adesso. Bianco coi muscoli, ma non ingombranti. Promosso a pieni voti, anche se l’ultimo bicchiere, bevuto da solo e fuori dalla cena, ha dimostrato come sia più un vino da abbinamento che non da meditazione (e questo può stupire).
Il secondo orange wine è stato il Terra dei Preti di Collecapretta. Trebbiano spoletino in purezza, macerato una decina di giorni. Sui 10 euro in cantina. Lo conoscevo già e ne avevo parlato. Ho ribevuto, a casa dei produttori, le annate 2008 e 2009. Più grassa e “facile” la 2009, con note al naso da passito di pregio (miele, frutta candita), ma acidità splendida. Più dritto e nitido il 2008, che ha smaltito il gran frutto esibendo le note più minerali. Di Collecapretta, piccola azienda familiare umbra a Terzo La Pieve, preferisco il Trebbiano non macerato: il Vigna Vecchia, uno dei migliori bianchi d’Italia, confermo e rilancio. Il Terra dei Preti è però un orange wine pienamente riuscito. E dal prezzo giustissimo.
Il terzo bianco macerato, provato alla Bottega del Vino di Castiglion Fiorentino, è stato un Triple A Velier. Sassocarlo Terre a Mano 2007, Fattoria di Bacchereto. Sui venti euro al ristorante. Trebbiano 80 percento e Malvasia 20. Carmignano, nel pratese. Un bianco da uve surmature, sottoposto a breve macerazione (evidente alla degustazione). Rispetto agli altri due, un orange wine più grasso e strutturato, impegnativo. Ha meno alcol di Dettori, ma si sente di più. Segno di un’acidità minore, ma comunque decisa (ancor più se considerato il territorio) e sufficiente a valorizzare il prodotto.
Nessuno di questi vini ha la macerazione infinita e “brutale” degli orange wine friulani e sloveni. Per questo li ritengo maggiormente adatti ai neofiti, o giù di lì, per avvicinarsi a una tipologia spinosa ma affascinante.