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Bruno Vespa e i suoi vini

domenica, Aprile 1st, 2012

Di fronte a un gioiello della letteratura come “Vino & Cucina” (Mondadori), la prima tentazione è quella dello sberleffo. Gli autori, infatti, sono Antonella Clerici e Bruno Vespa: un po’ come una jam session tra Ricchi e Poveri e Cugini di Campagna. Il libro, oltretutto, è fondato sull’abbinamento cibo-vino, ovvero l’aspetto più opinabile nel già soggettivissimo mondo enogastronomico. Ulteriore punto debole del volume (225 pagine, Euro 15.90).
Se in effetti non pare irrinunciabile sapere come la Clerici cucini l’orzotto al prosciutto affumicato o le uova in camicia con agretti, a Bruno Vespa si deve riconoscere una buona conoscenza enologica. Ne scrive ovunque, ma con cognizione di causa. Il punto è che applica al vino le stesse regole di Porta a porta: vince sempre il più forte. Tranne rari casi, i vini da lui consigliati sono la solita sequela di Tre Bicchieri cari al Gambero Rosso (la guida più “embedded”). Vini muscolari, belli senz’anima, industriali. Gaja, Lungarotti, Ca’ Viola, Duca di Salaparuta, Il Pollenza, Caprai, Berlucchi, Planeta, Antinori, Tenuta San Guido, Banfi, Frescobaldi, Casanova di Neri, Poliziano, Inama, Maculan, Jermann, Le Pupille. Yeownn: tutto troppo prevedibile.
Vespa ha il merito di citare ribelli encomiabili (Gravner, Valentini, Foradori), realtà preziose (Marisa Cuomo) e vitigni poco noti ma splendidi (Trebbiano Spoletino), ma in alcuni casi consiglia il vino palesemente meno riuscito di aziende prestigiose: menzionare il Paleo Bianco de Le Macchiole, abbinameno o non abbinamento, è come consigliare a un musicofilo Self Portrait, il disco peggiore di Bob Dylan. Significativa anche la scelta dell’Aglianico del Vulture: Vespa individua sì l’azienda storica, Vito Paternoster, ma invece di glorificare il tradizionale Don Anselmo (nominato distrattamente) opta per il Rotondo. Ovvero l’Aglianico più morbidone, vanigliato, saturo di barrique. Una scelta che ribadisce come Vespa sia filogovernativo pure nel vino, degno allievo dei Robert Parker e James Suckling, gli pseudo-guru che hanno spinto l’Europa verso la spirale involutiva del gusto omologato.
Al di là di alcune forzature, come definire il Dolcetto “cugino minore del Nebbiolo” (sono vitigni diversissimi), Vespa si rivela un Caronte preparato ma didascalico. Un insegnante che non affabula né incuriosisce, fornendo una lezioncina tanto corretta quanto stantia. Esilaranti, seppur involontariamente, alcuni aneddoti. Parlando del Friulano, il vitigno bianco che fino a qualche anno fa si poteva chiamare Tocai, l’ineffabile Bruno racconta di come tentò eroicamente di dirimere un’annosa controversia europea: “Quando dissi al Presidente della Repubblica magiara che si tenessero il nome per i loro splendidi vini dolci lasciandoci il copyright di quelli secchi, lui mi rispose che anche loro avevano Tocai secchi e perciò non era possibile mettersi d’accordo”. Questa, secondo Vespa, è la risposta che ricevette. E’ però verosimile che non abbia compreso sino in fondo le insidiose sfumature della lingua ungherese.

(articolo uscito il 30 marzo 2012 ne Il Fatto Quotidiano)