Archive for Maggio 5th, 2010

Recensione: Lavinium

mercoledì, Maggio 5th, 2010

Pubblico qui la bellissima recensione pubblicata oggi da Roberto Giuliani su Lavinium. Lo ringrazio. E rinnovo la mia stima (peraltro ammessa nel capitolo Backstage) per il suo portale.
Domani – giorno in cui festeggerò 36 anni e riceverò a Roma il Premio Durruti come miglior giornalista italiano – pubblicherò la recensione di Intravino. Dopodomani quella di Winenews. Grazie.

Confesso che mi sento fra i colpevoli, cioè fra tutti coloro che hanno apprezzato il suo Elogio dell’invecchiamento, e che ora sono responsabili, come simpaticamente afferma l’autore, di averlo spinto a scrivere un altro libro. E meno male! Si, perché a dirla tutta di libri davvero piacevoli su questo argomento ne sono stati scritti pochini; tralasciamo le guide e i manuali, che per loro natura sono inesorabilmente da prendere a piccole dosi, ma se andiamo a spulciare fra i vari romanzi, racconti e saggi su questo o quel produttore, o ancora peggio su questo o quel grande vino, non è che c’è proprio da dire, come Montesano nel ruolo del gagà Dudù, “oh come mi sono divertito, oh come mi sono divertito”…
Uno dei punti di forza di Andrea Scanzi è proprio nello stile, nell’approcciare un tema che, per sua natura, sarebbe destinato a una ristretta cerchia di enodipendenti, e che invece assurge a libro “per tutti i palati”. Quale miglior metodo nell’intraprende lo sfaccettato e contraddittorio mondo del vino se non partire da qualcosa di apparentemente lontano come la saga di Rocky Balboa, passando per le disavventure del fallimentare Chuck Wepner, da cui Stallone ha preso spunto per il suo personaggio restituendogli una insperata dignità, trasformandolo da masochista perdente a masochista vincente (con l’Elogio Andrea non aveva osato tanto, rimanendo abbastanza “in tema” con Sideways)? Per poi immergersi in un viaggio in trenta capitoli, dieci all’estero, dieci in Italia e dieci di alleggerimento. E lo riconfesso, ancora una volta un suo libro mi è piaciuto, fortemente, ne ho apprezzato il tocco pittorico della narrativa, il saper giocare ed essere serio nello spazio di due righe, sempre con grande ironia (“Ho sempre pensato che bere facesse male. Così ho smesso di pensare”…”Gli scribi, oltre a essere fingitori come i poeti e i sommelier, sono pure sostanzialmente scemi.”).
E mi piace quando sottolinea che “lo Champagne è il vino più famoso al mondo, eppure la conoscenza media che se ne ha è del tutto provvisoria. A fama immensa, corrisponde sapienza superficiale”. Attorno allo Champagne girano tanti luoghi comuni, ma chiunque, indipendentemente dalla classe sociale a cui appartenga, appena dice Champagne si possono tranquillamente osservare delle bollicine vagare sul suo umor vitreo, senza che ce ne sia una reale motivazione. Basterebbe farsi un giro nella regione per rendersi conto di come il fenomeno industriale (del vino) abbia fatto danni praticamente irrecuperabili, E fa bene Scanzi a citare il libro di Samuel Cogliati, uno di quei testi che tutti dovrebbero avere letto. Questo non vuol dire che non ci siano grandi Champagne, sarebbe cosa falsa e ingiustificata, ma certamente “Champagne” non è sinonimo di “grandi bollicine” solo in virtù di una storia secolare che il tempo ha profondamente trasformato, e non in meglio.
Molto interessante, e direi inevitabile, il capitolo successivo dedicato alla Franciacorta e alle altre zone spumantistiche italiane, addentrandosi nel particolare di produttori e vini, raccontando anche di degustazioni sempre in modo discorsivo, mai noiosamente tecnico.
Non fatevi ingannare dal terzo capitolo, “Cento cose da sapere sul vino degli altri”, si potrebbe pensare “ecco, ci siamo, ora comincia la lezione”, niente di più sbagliato, è un questionario (che ha già le risposte) che non è altro che una scusa per raccontare le meraviglie e le zone d’ombra di questa o quella zona vinicola della Francia, della Romania o del Sudafrica, senza mai la presunzione dell’ultima parola, del sapere assoluto. Sono spunti di riflessione, e anche qualche dritta che può sempre essere utile.
La pagina che ha sconvolto il web: 131
Mi piacerebbe continuare a parlare di ogni capitolo del libro ma finirei per scriverne uno a mia volta annoiandovi a morte, mi limiterò pertanto, perché desidero farlo, a esprimere un mio personalissimo parere su una pagina che è diventata oggetto di discussioni e dibattiti in numerosi “salotti” della rete: Sto parlando della pagina n. 131 che fa parte del capitolo “Arte ad ogni costo (Syrah Cortona)“, pubblicata integralmente da Franco Ziliani il 19 aprile sul suo blog vinoalvino.org, che ha scatenato una sequenza di interventi e di rimbalzi su altri siti e forum della rete, oltre ad aver spinto nientemeno che i proprietari dell’azienda Brancaia e l’enologo Carlo Ferrini (o meglio il suo avvocato Bernardo Losappio, già legale della Banfi), citati nel testo, a una replica chiarificatrice (leggete qui e qui). Cosa ha scatenato tutta questa bagarre? Andrea Scanzi, per la stesura di questo capitolo è andato a trovare Massimo D’Alessandro, autore del più rappresentativo e conosciuto Syrah cortonese, “Il Bosco”. Il noto produttore (azienda Tenimenti D’Alessandro), nella pagina “incriminata”, si sbottona e racconta di aver cambiato enologo nel 2006: “Con i winemaker di grido c’è un problema: pensano solo al fatturato. Seguono 60 aziende, vivono in auto, ogni mese ne cambiano una e sempre più costosa. Chioccioli ci seguiva qualche giorno, poi scappava via. Non era adatto alla nostra storia”. Fin qui niente di sconvolgente, in fondo abbiamo visto tutti in “Mondovino” di Jonathan Nossiter il famosissimo enologo francese Michel Rolland, dare suggerimenti alle aziende via telefono dalla sua Limousine con autista. Ma D’Alessandro va oltre: Adesso dirò una cosa che lei forse non dovrebbe scrivere, ma la dico lo stesso: i toscani sono furbi. Hanno sempre fatto vino un po’ finto, è nella loro storia. Lei saprà meglio di me che è in corso un’inchiesta durissima sul vino toscano. E’ molto più di un’inchiesta. In breve si è scoperto – secondo l’accusa – che un grande enologo, Carlo Ferrini, faceva vino in Toscana utilizzando vino proveniente da altre regioni. A quanto ho capito, hanno proprio beccato il fornitore con tanto di fatture emesse. Il fornitore era un abruzzese, i container col vino viaggiavano di notte per non farsi scoprire. La giustizia farà il suo corso, non entro nel merito e non arrivo a conclusioni, mi limito a riportare quello che so, ma adesso se ne parla più di prima soltanto perché per caso l’inchiesta è andata in mano a un magistrato integerrimo. Vuole che sia brutale? Temo che in Toscana il vino si sia sempre fatto così”. E continua “Vigneti scadenti, vigne di basso livello, migliorati da un vino-base fatto venire da altre regioni. Questo vino-base ha un altissimo residuo secco, il sapore è neutro perché non lo si riconosca ed è fatto con metodi ipertecnologici: raggi infrarossi, cose così. Serve a dare colore, struttura, concentrazione. Sono stati fatti sequestri ovunque. Sono amico di Brancaia, mi hanno detto che da loro hanno sequestrato 75 mila bottiglie già vendute agli americani. E’ accaduto anche a Frescobaldi e altri. Sa qual è l’unica soluzione? Allontanare quel magistrato, perché è una metodologia troppo radicata in Toscana. Non cambierà mai.”. Capite bene che una “rivelazione” del genere, soprattutto riportata su un libro, non poteva passare inosservata e non scatenare reazioni molteplici, non ultima quella di accusare Scanzi di aver manipolato quelle dichiarazioni. Come spesso accade però, ci si sofferma a ciò che più ci colpisce, tralasciando particolari assai rilevanti come il passaggio immediato nella pagina successiva da parte dell’autore, che afferma in modo netto: “E’ anche per queste parole, caro Gigi Garanzini, cari amici lettori, che mi sento un toscano apolide. A prescindere dalle implicazioni giuridiche, dalle persone direttamente coinvolte. Tutti, fino a prova contraria, sono innocenti”. A mio avviso, se c’è qualcosa su cui si può discutere o dissentire relativamente alle dichiarazioni di D’Alessandro, è su una certa generalizzazione e su una interpretazione unilaterale di un modo di fare vino in Toscana. Probabilmente si è lasciato prendere la mano, avrei apprezzato molto di più il suo intervento se la chiosa fosse stata “Temo che una certa Toscana il vino lo abbia sempre fatto così”. Le storture, le frodi, il malcostume, sono cose reali che esistono in qualsiasi regione e in qualsiasi contesto economico, ma è assolutamente ingiusto e riduttivo fare di tutta l’erba un fascio. In Toscana ci sono produttori integerrimi e puri fino all’inverosimile, che per portare avanti la loro realtà e le loro idee si sono trovati spesso anche in profonda difficoltà finanziaria, pressati da un mercato che ragiona con regole ben diverse (e qui incidono fortemente i media, i giornali, il web e tutti coloro che mettono sul piedistallo questo o quel prodotto secondo una logica quantomeno opinabile). Quando vedi che il sistema ha regole totalmente diverse e discutibili, quando ti rendi conto che il tuo vino, per quanto lo fai con tutto l’amore e l’onestà possibile, non seguendo schemi e mode imposti in quel momento, non si vende o quantomeno viene ignorato perché non risponde al gusto e ai canoni del momento – e mantenere un’azienda vitivinicola ha dei costi non indifferenti – la tentazione di cedere, di trovare scorciatoie, non illegali, ma sicuramente indirizzate a scelte che non ti appartengono ma funzionano per i modelli attuali, come avere la consulenza di un enologo di grido, che farà un altro vino, certamente non il tuo, come l’utilizzo di certi vitigni riconosciuti in tutto il mondo, di certe botti e di certe pratiche consolidate di cantina che trasformeranno il tuo vino in qualcos’altro, magari un po’ finto, ma di sicuro successo, come l’esserci a tutti i costi nelle guide perché serve, ancora serve checché se ne dica, beh, quella tentazione ti può anche venire. E forse un esamino di coscienza se lo dovrebbero fare in molti, non solo i produttori. Ma questo è un altro discorso…
Tornando a “Il vino degli altri”, che ha molte pagine interessanti oltre alla fuorviante “131”, oltre a fornire numerosi spunti di riflessione, riesce a tenere costantemente alta l’attenzione, a divertire, a ricordarci che non bisogna prendersi troppo sul serio, che l’ironia, e l’autoironia, sono il vero sale della vita. Così, quando arrivi in fondo a quelle quasi 330 pagine, hai un solo rammarico, che sia finito, e la speranza che l’autore (in fondo è ancora giovanissimo e ne ha di strada davanti), sotto la spinta non tanto del successo quanto dei suoi numerosi estimatori, si rimetta presto al lavoro per proporci quanto prima una nuova, indimenticabile, avventura enoica.