Recensione L’Espresso.it

Andrea Scanzi evoca Mann, Bulgakov, Jack London, Jèrome e Umberto D nel suo ‘I cani lo sanno’. Protagoniste le due labrador, Tavira e Zara, e il suo rapporto con loro, paritario, fideistico e assoluto. D’altronde Berselli lo considerava suo erede e discepolo. E lui i cani li amava parecchio.

Nascosto nella campagna toscana, Andrea Scanzi lo sa. Sa che i cani sono migliori di molti uomini, che di notte è meglio togliere i sacchi dalla finestra, che il gioco è inesausto se solo si prova a non dimenticare che gusto dà. Scanzi ha poco più di trent’anni e sufficientemente meno di quaranta. Firma per il Fatto, dopo averlo fatto con La Stampa e il Mucchio Selvaggio. La giungla gli piace. E’ uno strano tipo di vitalista. L’energia stringe il braccio all’edonismo e la spiritualità è fatta di chilometri, taverne, odori, cuochi e vignaioli di mistica concretezza. Di un popolo dal cognome sconosciuto e l’attenzione a prua, che agita una piccola, ma non minuscola comunità reale. Attenta e interessata. Dialogica. Polemica. Ironica. Lo incontrano, vanno a vederlo a teatro e di sera, in una gara a scacchi con la tastiera, si riverberano nei suoi post su Facebook.
Vitali, provocatori, distanti dagli eroi di “Hello Denise” in cui la virtualità telematica coincide con un’essenza cui si appartiene e lo si sa. Commentano articoli i “criminosi” seguaci di Scanzi, sollecitano prese di posizione, ridono di una lingua inventiva, ricca, colta, ossimorica (moderno e arcaico insieme, distante dai dettami delle cinque W, comunque osando) che allo stile non sacrifica la durezza del contenuto.
Scanzi coltiva idee. Osserva vino paglierino e perdenti, politici in decomposizione e racchette da tennis, corse su piste più veloci dei sentimenti e conduttori televisivi la cui simpatia è inversamente proporzionale alla considerazione di sé. Sente affinità con Gaber e Rino Gaetano, discute di Amy Winehouse, irride i miti bolsi e difende quelli come Ivan Graziani dimenticati troppo in fretta, dietro lupi e bracconieri. Scanzi insegue di preferenza l’assurdo perché interpretando il sussurro di Dostojevskij, la realtà è sempre più orribile (e rivelatoria) di qualunque mostruosa fantasia.
Così il “boy” di Arezzo che Edmondo Berselli considerava erede e discepolo- frammenti di autostrada, lambrusco, risa crasse e riflessioni in vista dell’alba – è cresciuto e – rarità – dato senso all’investitura. Ora Scanzi è in libreria. E’ un’abitudine che non sconfina nella routine. Il volume “I cani lo sanno” (Feltrinelli) è un inno alla bava canina, all’olfatto sensibile dei padroni «sopratutto quando piove», al desiderio di possesso che diventa reciproca indivisibilità, consolazione, malcelato orgoglio quando Zara e Tavira, le labrador protagoniste, imparano a difendersi, ringhiando se necessario, dalle angherie.
Sostenere che Scanzi non abbia figli è come bestemmiare. Zara e Tavira assolvono alla funzione. Dormono, russano, mangiano, giocano, si ammalano, guariscono, si gettano nell’acqua, annusano whisky, pigolano durante l’assenza, sanno farti pagare la lontananza. Sei stato via? Intanto, per iniziare, limbo, purgatorio e indifferenza. Rapporto paritario, fideistico, assoluto. Sangue, merda, bellezza e struggimento. Scanzi cita Prèvert: «Fate entrare il cane coperto di Fango (…) SI può lavare il cane, si può lavare il fango» e lontano, nelle brume dell’evocazione involontaria si muove l’amata Liù di Berselli, il Pallino di Bulgakov, lo humor di Jèrome, il compreso dolore del Flush di Virginia Woolf e poi in ordine di sentimento, gradazione, gusto e aderenza, Cechov, Mann, Kipling, Faulkner, Jack London e il Flik di Umberto D., l’unico giusto, l’unico compassionevole.
Un cane sa esserlo. Un cane lo sa. E Scanzi, se anche lo ignorasse, ve lo direbbe diversamente. Gentile con i deboli, spietato con il resto del mondo. A cuccia, come sempre, stiano gli altri.

Malcom Pagani

(L’Espresso.it, 21.9.2011)

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