L’ultimo Volo del Duca

Bowie 2Teatrale fino alla fine, di quella teatralità che saccheggia l’arte alta per tramutarla in cultura popolare, David Bowie non ha fallito neanche la morte: è divenuta anch’essa spettacolo. L’ultimo disco, uscito due giorni prima della morte. Il titolo, “Blackstar”, che da solo è un presagio. E l’ultimo singolo che lo ritrae come “Lazarus”, sul letto in ospedale con le bende e una strofa che dice tutto: “Guardate qui in alto, sono in paradiso”. E’ come se, a 69 anni – compiuti l’8 gennaio, il giorno d’uscita di Blackstar – e dopo 18 mesi di lotta contro il cancro, David Bowie avesse convinto la morte a piegarsi a questa sua ossessione per la sceneggiatura. Per una verità che è finzione, continua finzione, e viceversa. Ha scritto il critico Stefano Solventi: “È stata una vera e propria uscita di scena. Sulla falsariga di quell’equilibrio equivoco tra realtà e rappresentazione – spesso eccedendo la realtà, trasfigurandola, compenetrandola – che ne ha caratterizzato il linguaggio”. Duca Bianco e Camaleonte Coloratissimo, Bowie ha vissuto così tante identità da lasciare a ognuno un ricordo personale. Un singolo, un’istantanea. La ricchezza è tale che, sui social, ieri una delle canzoni più citate era anche uno dei brani meno rilevanti: “Under Pressure”, duetto stravenduto con i Queen all’interno di un decennio cacofonico – gli Ottanta – in cui perfino Bowie fu spesso più commerciale che ispirato. Le collaborazioni sono state un’altra delle sue costanti, e con esse la propensione ad azzardare. Possibilmente con gente posseduta dai demoni non meno di lui: Iggy Pop, Lou Reed. Due amici a cui probabilmente ha salvato la carriera (e sicuramente ha allungato la vita). C’è chi già adesso mette in fila la sua bulimia sessuale: le orge con Mick Jagger, le fughe con Liz Taylor, la storia con Susan Sarandon. Andy Warhol raccontò come Bowie avesse avuto almeno una storia con tutti i suoi collaboratori. E la prima moglie Angie creò un letto ricoperto di pelliccia a quattro metri di profondità: “The Pit”, “La fossa” (“Chiunque scopava con chiunque nella fossa”). Era uno dei molti lati famelici dell’irrequieto Bowie pre-secondo matrimonio, ancora con una modella, stavolta la somala Imam Mohamed Abdulmajid (sposata nel 1992). Nelle interviste diceva di essere “gay da sempre”, poi “bisessuale”. Quindi negava tutto: “Macché, scherzavo”.
bowie 3Un altro aspetto del suo camaleontismo: del suo non essere mai dove ci si aspettava che fosse, ribelle e al contempo modaiolo. Perfino testimonial di Louis Vitton. Tutto e il suo contrario, purché fosse possibile lasciare andare il talento. La creatività. Un genio enorme, con cui era difficile convivere (anzitutto per Bowie stesso). Anche negli ultimi anni, quando i toni si erano addolciti e la sua pareva la vita di un gigante dell’arte contemporanea fattosi col tempo quieto, realizzato e ormai eremitico. In Italia è venuto spesso, a volte lasciando feriti. Per esempio Adriano Celentano, che nel ’99 lo annoiò con domande – secondo lui – così banali che, quando gli chiesero come si fosse trovato col Molleggiato, Bowie rispose: “L’ho capito subito che era idiota”. Cantautore, polistrumenista, compositore, produttore e attore (anche la sua filmografia è schizofrenica: c’è Scorsese, ma pure “Il mio west” di Veronesi). Ha lasciato almeno dieci dischi straordinari, su tutti la Trilogia di Berlino, nata anche come reazione al troppo successo dell’alter ego Ziggy Stardust e alla tossicodipendenza. Non di rado creava tracce che a ogni ascolto guadagnavano in propensione epica (“Heroes”). Bowie ha lasciato anche massime straordinarie: “I miei pantaloni hanno cambiato il mondo”. Allergico alla normalità, per indole e per calcolo: «Non concepisco l’idea di uscire sul palco in jeans e avere un’aria il più normale possibile di fronte a diciottomila persone». Ieri ne hanno pianto tutti la scomparsa, resa nota l’11 gennaio (lo stesso giorno di Fabrizio De André) ma avvenuta la notte del 10 a New York: lo ha ricordato anche il Premier Cameron, che è cresciuto “con le sue canzoni” (e a guardarlo non sembrerebbe). Nato a Brixton, sud di Londra, ma cresciuto nel sobborgo di Bromley. Contesto agiato, noioso e dunque decisivo, come ha scritto Ian Buruma su Repubblica citando il romanziere J.H Ballard: «Posti molto più sinistri di quello che si immagina chi vive in città. La loro insulsaggine costringe l’immaginazione a esplorare terre nuove. Sei costretto a svegliarti al mattino pensando a un’azione deviante, solo per avere la sicurezza di essere libero». Condannato a spiazzare e reinventare, per non morire di noia e per scendere a patti artistici con la propria inquietudine, Bowie voleva essere “solo” un sassofonista. Magari di Little Richard. Per questo prese lezioni dal “più bravo di tutti”, Ronnie Ross, celebre anche per l’assolo di “Walk On The Walk Side”. Quando Ross lo sentì suonare, gli fece capire che non era la sua strada: una fortuna. Ha quotato se stesso in borsa, ha detto sciocchezze su Hitler, è stato beat e glam rock, soul e krautrock. Dissonante come i suoi occhi, l’uno diverso dall’altro (colpa di una rissa per amore a 20 anni). Buddhista, scandaloso, soprattutto extraterrestre. Affascinato tanto dall’occulto quanto dalla sperimentazione, sapeva bene che prima o poi avrebbe potuto scoprire quanta verità – o pure lì finzione – risiedesse in quelle sue parole: “Io sono seduto nella mia scatola di latta/ Molto al di sopra del mondo/ Il pianeta terra è blu/ E non c’è niente che io possa fare”.(Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2016)

Bowie

 

3 Comments

  1. Su Wikipedia leggiamo che Christopher Nolan gli chiese personalmente di interpretare Nikola Tesla nel film “The Prestige”.
    A proposito di visionari.
    Mi piacerebbe chiedergli com’è andata.

    Grazie di tutto David.
    Ma proprio di tutto.

  2. Bello come al solito il pezzo di Scanzi . Bowie è stato un grande e rimarrà nell’immaginario di tutti come un genio. Complimenti Scanzi. Anche da bannata, da marchiata con la tua lettera scarlatta continuo a leggerti.

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