De André, l’anima salva che ci manca

faber2A più di 15 anni dalla sua scomparsa, Fabrizio De André continua a essere il cantautore italiano più amato. La celebrazione talora acritica che ha caratterizzato molti tributi, volti a levigare ogni suo spigolo fino a tramutarlo in una sorta di santino, probabilmente lo infastidirebbe. De André non ha mai voluto piacere a tutti. Andandosene anzitempo si è consegnato al mito e ha lasciato un’assenza non colmabile. Perché manca così tanto? Perché aveva un talento non comune, certo. Perché aveva una voce unica, certo. C’è però almeno un altro motivo. I cantautori – quelli più ispirati, quelli meno modaioli – sono state figure artistiche assai atipiche. Non riuscivano ad appartenere, non politicamente almeno, ritrovandosi quasi sempre cani sciolti e anarcoidi. E’ il caso di De André come di Gaber. Al tempo stesso, entrambi – pur non riuscendo ad appartenere – generavano appartenenza. Li si andava a vedere consapevoli che non sarebbe mai stato soltanto un concerto. Sopra quel palco, più che un artista, lo spettatore avrebbe trovato un fratello maggiore, capace di dirti – e dirtelo bene – quello che gli altri non dicevano. Solo De André sapeva metterti in guardia così bene dalla maggioranza, quella che coltiva tranquilla “l’orribile varietà delle proprie superbie (..) come una malattia”. E solo De André rivelava che spesso i diamanti si trovano dove nessuno mai li cercherebbe, in quel “letame” che è poi l’humus – più subìto che scelto – dei “servi disobbedienti alla legge del branco”. Ovvero le “anime salve”, coloro che sapranno consegnare “alla morte una goccia di splendore”. Ecco perché De André manca così tanto: perché era appartenenza e perché con lui la solitudine era più tollerabile, o addirittura invidiabile. Ricordarlo, senza retorica e con rispettosa gratitudine, è anche una maniera per lenire quell’assenza. Giulio Casale ed io lo facciamo da quasi un anno con “Le cattive strade”, spettacolo che domenica (ore 21.30) chiuderà la festa del Fatto alla Versiliana. Sarà la 43esima replica, delle 90 da qui a giugno, e sarà ovviamente particolare.
Il tema del “diverso”, dell’emarginato è centrale in De André. L’artista genovese intuisce, apprendendolo anzitutto da Brassens, che la via maestra è quella “cattiva”, battuta da coloro che hanno lambito la morte (i condannati, i drogati) e inseguito la pietà per restare in qualche modo salvi. Poiché non esistono poteri buoni, la salvezza coincide spesso con una inseguita emarginazione che tenga al riparo l’anima e permetta che qualche raggio di sole arrivi a scaldarti, oltrepassando quelle nuvole – citazione da Aristofane – che sono poi un’altra rappresentazione del potere opprimente. I salvi di De André sono Geordie, sono Piero, sono Princesa. In un paese e fatalmente tendente all’ipocrisia, questa insistita vicinanza agli ultimi – e questo smisurato rigore morale – sono un approccio rivoluzionario. E la rivoluzione è un altro elemento della longevità del messaggio deandreiano, ormai un classico e dunque faber3reinterpretabile come chiedono – e anzi esigono – i classici. Era rivoluzionario parlare di Sessantotto riprendendo non il maggio francese (che sarebbe arrivato dopo in De André) ma i Vangeli Apocrifi, applicando a quel presente ribelle l’ossimoro della laicità cristiana. Gli dicevano: “Che c’entra la Buona Novella? Perché parli di Gesù mentre noi siamo sopra le barricate?”. E lui: “Perché nessuno è stato più anarchico e rivoluzionario di Gesù”. Ancor più il Gesù “umanizzato” dei Vangeli non autorizzati. In De André era rivoluzionario anche l’approccio con il mercato: negli ultimi anni incise un album ogni sei anni. Un tempo lentissimo e kubrickiano, per nulla commerciale, che non poteva non assecondare: De André incideva dischi solo quando aveva qualcosa da dire. Terrorizzato dai concerti, a cui si avvicinò soltanto nel 1975, De André è stato rivoluzionario anche in un aspetto che molti volutamente dimenticano: quello musicale. Spesso la canzone d’autore italiana ha buoni testi ma musiche non all’altezza. De Andrè era il primo a sapere che quella “balbuzie musicale” dovesse essere superato, perché per quanto nitide le sue parole sarebbero comunque evaporate – in una nuvola rossa, va da sé – senza vestiti sonori all’altezza. Per questo, sin dall’inizio e più ancora dalla seconda metà dei Settanta dopo la tournèe con la Pfm, accanto a De André c’è sempre qualcuno. I fratelli Reverberi, Mannerini, Giuseppe Bentivoglio, New Trolls, Piovani, De Gregori, Bubola, Pfm, Pagani, Fossati. In quegli Anni Ottanta che videro impantanarsi molti colleghi, lui – depositario della lingua italiana in musica – rinunciò all’italiano per cantare in dialetto genovese. Se il mondo era cambiato, e se già si intuivano i prodromi di quella “pace terrificante” che avrebbe portato alla “domenica delle salme”, occorreva cambiare lo strumento della narrazione e inseguire un nuovo (o vecchio) esperanto. De Gregori ha sostenuto, non senza una certa rudezza, che De André è stato “un grande organizzatore del lavoro altrui”. E’ vero:  da solo, Faber ha scritto poche canzoni. Ma non è un limite. Al contrario: conscio tanto della sua forza quanto delle sue lacune, si è sempre fatto accompagnare da compagni di viaggio – che spesso hanno toccato il loro apice con lui accanto – proprio per raggiungere quell’idea altissima di arte che aveva. Chiedersi se sia stato o no un poeta è capzioso: musica e cantautorato sono sport diversi. Di sicuro è stato artista rigoroso, intellettuale inquieto e uomo libero. Anima salva, ieri come oggi. (Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2014)

One comment

  1. Ti faccio i complimenti, ma soprattutto vanno a De Andrè, perché segnali l’importanza dell’essersi circondato di musicisti bravi che hanno migliorato la sua musica, rendendola sicuramente superiore a quelle degli altri cantautori.
    Riconoscere di aver bisogno di altri e cercarli tra i migliori non è certo un punto di debolezza

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